Storia delle Tradizioni religiose
(dagli appunti del prof. A.A. Gnolfo con integrazioni e note di Pino Lutricusi – Aramis)
Tradizioni precristiane
La fiaccola della vita cominciò ad ardere sul Monte almeno 5000 anni fa, nell’età della pietra lavorata. L’ossidiana costituì per l’uomo primitivo flegreo motivo di attrazione, poiché quella lava vetrosa rappresentava l’unico mezzo per levigare armi e utensili.
Chi fossero gli aborigeni flegrei non è possibile stabilirlo con precisione tra i più antichi popoli che dimorarono sul Monte, o sul declivio orientale, possiamo ricordare Lestrigoni e Cimmeri, Liguri e Sicani, Siculi e Ausoni; a questi fecero seguito Italici e Greci. Essi, lasciate le caverne, accanto alle loro capanne di pietrame, costruirono le prime rozze tombe: dalla Gaveta a S.Martino , dalla contrada Fumo a Monte Grillo, fino all’estremo declivio sud orientale; inoltre innalzarono i primi altari alle Divinità.
Nessuna contrada d’Italia vanta una religiosità arcaica cosi’ profonda e suggestiva come quella della Regione Flegrea Fin qui, dalla preistoria, fu localizzato l’Oltretomba, di cui la collina montese costituiva l’Eden, riservato alle Anime Beate; qui Giove sconfisse Titani e Giganti; qui Enea, secondo Virgilio, accompagnato dalla Sibilla Cumana, venne a trovare l’Ombra del padre , Anchise. Qui Cerere ebbe un particolare culto e qui la figlia, Proserpina, venne fatta sposa da Plutone. Scomparsi i ruderi dei templi, distrutti dalla furia dei barbari e dei Barberini, il ricordo di tanta religiosità resta affidato ancora a qualche toponimo.
Sul monte “Grillo” doveva sorgere un boschetto in onore a Proserpina: “Kora ilè” (Bosco di Cora o Proserpina), da cui” Krailè”, “Krile”, “Grile” , “Grillo”. Il boschetto sacro doveva estendersi dalla Schiappa di Monte Grillo fin quasi alla ” Retonna”. Questo toponimo deriva da “ris temnos” (altura sacra); “ris” è termine indoeuropeo e da esso deriva il greco “rion” (collina, monte); “temnos” deriva dalla radice “tem” da cui si è formato “templum”. Alla Retonna doveva sorgere un tempio dedicato a Proserpina. La dea, rapita da Plutone, da questi sarebbe stata condotta nel suo regno sotterraneo, attraverso un antro che si apriva “abbascio a o ‘Nfierno”.
Dagli albori del Cristianesimo alle invasioni barbariche
Il Cristianesimo si affermò nella nostra terra sin dai primissimi anni. La nostra comunità cristiana ebbe la visita dei Santi Pietro e Paolo. La religiosità indigena flegrea è la sola che ha influito sul Cristianesimo, divenendone parte integrante della sia liturgia. La Chiesa non ha sdegnato infatti porre il ricordo della Sibilla Cumana accanto alle profezie di Davide (cfr. sequenza: “Dies irae illa, teste David cum Sibilla”). Tanta sacertà influì sul pensiero di S. Gregorio Magno e di Dante, il quale per cantare il suo Oltretomba cristiano venne qui ad ispirarsi, presso l’oltretomba indigeno flegreo, cantato da Virgilio.
La religiosità flegrea brillò di nuova luce con l’avvento del Cristianesimo. Cuma nel II secolo ebbe il suo protomartire nella persona di San Fedele, seguito nel 298 da un altro campione della fede: San Massimo. Il 23 settembre dell’anno 305 Diocleziano fece decapitare i Santi Gennaro , Proculo, Desiderio, Acuzio, Eutiche e Sossio, il quale era della nostra diocesi misenate[1]. Le sue reliquie furono conservate per lungo tempo nella cattedrale sita a Torre di Cappella, ricavata dall’adattamento a chiesa cristiana del tempio di Minerva. Il 29 settembre 312 S. Massenzio chiudeva la schiera dei martiri flegrei. Diversi vescovi misenati furono presenti ai più importanti Concili, tenutosi a Roma e a Costantinopoli.
Nel IV secolo, per volontà di Papa Gregorio Magno, veniva allestito un fortilizio sulla collina montese, costituito da torri, fossati e palizzate, allo scopo di difendere la diocesi misenate da eventuali incursioni barbariche. Ciò ha indotto gli storici a pensare che Miseno col suo porto e la sua acropoli (la collina montese), facesse parte, di fatto, del “Patrimonio di S. Pietro”, prima ancora che lo Stato Pontificio sorgesse ufficialmente.
La comunità cristiana montese, oltre alla cattedrale sita a Torre di Cappella, ebbe altre chiese. La storia ne ricorda due: una dedicata a S. Pero, lontano ricordo del passaggio del principe degli Apostoli e un’altra dedicata a S. Martino.
Dall’Ughelli si desume ancora l’esistenza sul Monte di un oratorio dedicato a S. Michele Arcangelo, la cui devozione presto dovette passare all’isola di Procida.
Fino al 1920 troviamo nella chiesa di S. Pietro a Torregaveta, i Benedettini, i quali operarono nella nostra zona fin dal VI secolo, quando il patrizio Tertullo, padre di S. Placido, donava all’ordine benemerito metà del lago Lucrino.
A causa delle ripetute invasioni barbariche e alle continue devastazioni subite, la città di Miseno, che sorgeva tra Maremorto e l’attuale borgata di Cappella, andò via via spopolandosi. Una parte dei cittadini trovò rifugio nel villaggio di Frattamaggiore, una parte cercò riparo sul Monte, all’ombra delle locali fortificazioni, servendosi per i propri bisogni spirituali delle locali chiese. Il clero raggiungeva il nucleo di contadini che aveva già trovato rifugio a Procida per evitare le molestie delle continue incursioni nemiche.
La Madonna del Monte
Sul finire del XV secolo andava in rovina la chiesa di S. Martino. I contadini montesi e i pescatori della locale tonnara per assistere alle funzioni religiose dovettero temporaneamente improvvisare una cappella in qualche casa privata.
Più tardi, agli inizi del 1600, la piccola comunità cristiana del Monte erigeva una nuova chiesetta dedicata alla “Madonna del Monte”.
La prima immagini ivi venerata “mostrava una guerriera” (cfr. Parascandola, p.273)., probabilmente trasferita dalla cattedrale della Torre di Cappella dopo la rovina di quest’ultima.
L’interpretazione di temi iconografici pagani secondo la nuova sensibilità cristiana, la sostituzione di culti pagani, praticati verso “il Sole Invitto”, Cerere, Apollo, Minerva ed altre divinità con culti similari cristiani e storicamente accertata. Tali fenomeni altro non costituiscono che un riconoscimento, esplicitamente confermato da alcuni Padri della Chiesa, della validità di certi principi morali contenuti nella filosofia ed in alcuni miti indigeni, precristiani.
Ma l’immagine della Madonna guerriera non piacque al Vescovo del tempo, perché gli ampi svolazzi della veste lasciavano scoperti i polpacci delle gambe.
Ma immagini di Madonna con sembianze marziali se ne sono avute fin dai primi tempi del Cristianesimo. Esse costituiscono l’espressione di un duplice concetto di teologia mariana: l’uno inerente alla protezione universale e individuale di Maria Santissima, l’altro inerente alla sua invincibilità.
Quest’ultimo concetto maturo nel ricordo biblico della “Donna” predestinata a sconfiggere il serpente infernale. A tale ricordo biblico si allacciò la consuetudine, praticata dal primitivo Cristianesimo, di sostituire devozioni verso divinità indigene con devozioni cristiane.
“Sub tuum praesidium…”, ” sub tuum scudum…” sono espressioni cristiane che riecheggiano un po’ il culto pagano verso la dea Minerva, rappresentata propriamente con uno scudo al petto.
E la sostituzione del culto pagano con altro culto verso la Madonna guerriera, nei primi secoli del Cristianesimo, fu piuttosto comune, specialmente nel vicino Oriente e presso gli slavi.
Lo stesso fenomeno può essere avvenuto nella nostra ex-diocesi misenate, dove Minerva, nell’antichità, ebbe un solenne culto[2].
Come precedentemente accennato, andata in rovina la cattedrale sita in a Torre di Cappella, l’immagine della Madonna guerriera dovette essere trasferita sul Monte, dove già dal 1644, sotto il titolo dell’Assunta in cielo, era stata fondata una chiesetta per i bisogni spirituali dei coloni. Quest’ultima era sotto la giurisdizione religiosa di Napoli, che restava nell’orbita politica di Roma, e non a Pozzuoli, signoria dei Longobardi, spesso avversi al Papato.[3].
Ma le autorità religiose di Pozzuoli, come le autorità civili, avevano interesse di annettersi la giurisdizione del Monte e ciò provoco una serie di conflitti tra la diocesi di Pozzuoli e l’archidiocesi di Napoli[4]. Il Governo di Napoli, con decreto del 18 settembre 1805 sottopose la questione alla Giunta Ecclesiastica Napoletana, presieduta dal card. Ruffo; qust’ultimo , però, nel 1806 seguì, fuggiasco, i Borboni in Sicilia dopo l’arrivo di Napoleone Bonaparte a Napoli.
Mons. Rossini, vescovo di Pozzuoli, ben accetto ai nuovi Governanti francesi per le sue idee liberali, ottenne che la Giunta Ecclesiastica, incaricata di dirimemere la questione inerente alla giurisdizione del monte, fosse composta di due prelati di sua fiducia e di un magistrato puteolano, suo amico. Nel 1807 la sentenza della Giunta fu favorevole alla diocesi di Pozzuoli e così la chiesa del Monte, contro probabilmente la volontà degli stessi montesi, ne divenne parte integrante.
[1]Sotto l’imperatore Claudio, Miseno divenne una colonia distaccata da Cuma. In questa oltre al più oggi noto Capo Miseno, allora chiamato “Promontorius Miseni” era compreso anche il Monte, allora indicato come “Mons Misenum”.
Non c’e’ da meravigliarsi di ciò in quanto, come anche ricordato dall’abate Galani, il Misenum è l’intero promontorio naturale, di cui il Monte forma l’ammasso principale, che abbraccia tutta la piccola penisola rinchiusa tra il seno baiano e la palude Acherusia (Fusaro) anch’essa mare. Il promontorio di Miseno termina a tre punte: dei Penati a levante, di Fumo a ponente e di Miseno proprio ad austro.
[2] Come già detto in località Torre di Cappella, prima dell’avvento del Cristianesimo, vi era un tempio dedicato a Minerva sulle cui rovine fu costruito una chiesa cristiana.
[3] Questo stato di cose trova origine nel VII e VIII secolo a seguito delle incursioni barbariche che determinarono lo spopolamento della zone di Misenum. Allora fu soppressa la sede episcopale di Miseno e il territorio diocesano passò alla giurisdizione del vescovo di Napoli, mentre alcune attrezzature del Castrum Miseni venivano trasferiti sul Monte che per molto tempo continuò le funzioni e il ruolo.
Questo stato di cose fu riconosciuto nel 1195 da Enrico IV, padre di Federico II di Svevia. Questi confermò all’arcivescovo di Napoli i diritti sulle terre di Monte e Maremorto; anche a seguito di alcuni scontri tra quest’ultimo e la diocesi di Procida che rivaleva i diritti sulle terre di Miseno.
[4] Gli scontri, spesso non solo giuridici tra i coloni montesi e la diocesi di Pozzuoli cominciarono con il decreto di quest’ultima del 13 febbraio 1700, con il quale si assegnò alla parrocchia di S. Anna , tra gli altri, il territorio di Monte di Procida.
Molti coloni procidani però, continuarono a portarsi nella loro parrocchia di Procida per sposarsi cresimarsi e battezzare i loro neonati. Questo non faceva che inasprire ancora di più i rapporti tra i coloni e i parroci bacolesi, che sfociarono anche in eventi clamorosi, come l’annullamento di matrimoni celebrati nella parrocchia procidana. Per altre notizie vedi anche Gianni Race.