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Una Pagina di storia: Baia, lo scontro ferroviario fra due treni della Cumana.

Bacoli. Era l’alba. L’estate del 59’ era alle porte. Il sole penetrava, dal basso dell’orizzonte, accarezzando con dolcezza la facciata della stazioncina di Baia e il suo portoncino di legno robusto.
Da questa entrata si accede a un corridoio di breve lunghezza, che conduce al piazzale della ferrovia. Su di un lato di questo c’è l’ufficio e la biglietteria; dall’altra parte si va verso la sala di aspetto: ampia, piena di luce; in fondo ad essa c’è una piccola caffetteria, il cui proprietario, un uomo di mezza età, offre ai clienti, in attesa del viaggio, un delizioso caffè espresso. Dall’altro lato dello stanzone, una porticina minuta, nasconde un’impervia scalinata a chiocciola, che reca all’abitazione dell’ispettore : che molti chiamano, con voce napoletana “ O cavaglier ”.
Ugo era il capostazione di servizio quella mattina; aveva sonnecchiato nel dormitorio dell’impianto. Fattasi l’ora, saltò giù dalla brandina, dopo una notte in cui si era rivoltato più volte nel sonno. Si posò sul naso gli occhiali sottili e dorati e naufragò nelle sue preoccupazioni quotidiane, che lo avrebbero accompagnato fino a sera.
Era questo un omino dall’aspetto mansueto, a cui piaceva la vita tranquilla e, forse, quel mestiere che si era cercato, a volte, lo rendeva nervoso: sovente, le sorprese che gli venivano dai ritardi della circolazione dei convogli, o dai guasti meccanici al materiale rotabile o da qualche altro accidente, per cui occorreva raccogliere insieme le forze fisiche e quelle mentali, gli creavano non poche sofferenze.
Quel giorno, a proposito di tranquillità, il poveretto, mentre sbrigava quelle faccende personali di prima mattina, non avrebbe mai immaginato ciò, che da lì a poco, fosse accaduto in quella quieta stazione.
La linea ferroviaria era stata concepita a binario unico; gli incroci, fra i veicoli che viaggiavano in senso opposto, avvenivano nelle stazioni stabilite dall’ orario di servizio; occasionalmente, per anomalie che si fossero verificate al traffico ferroviario, i capistazione, si mettevano al telegrafo e, con questo strumento, concordavano, in quel linguaggio fatto di linee e di punti, in uso a quei tempi, la variazione della sede di incrocio. Altre volte, come nel caso di quella mattina, in cui l’orario ferroviario fu modificato, la diversa collocazione degli incroci venne disposta , attraverso un ordine scritto, della direzione centrale della ferrovia.
Ugo già aveva preso visione di questo documento; lo rilesse ancora una volta, accuratamente, e se lo ripeté per ficcarselo definitivamente nella testa: “Bene – disse fra sé e sé – da questa mattina e fino a settembre, l’incrocio va fatto a Torregaveta e non più a Lucrino”. Per farla intendere meglio , i treni in partenza dalla stazione capo tronco di Torregaveta, dovevano attendere l’arrivo di quello proveniente da Montesanto, per poter iniziare a circolare.
Posato sulla testa il cappello rosso col cordone dorato, Ugo si diresse sul piazzale, in attesa di ricevere il convoglio proveniente dalla stazione contigua.
Intanto a Torregaveta le cose procedevano in tutt’altra maniera. Il capo di quella stazione aveva dormito saporosamente nel letto di famiglia. Giunto in ufficio, dialogò un poco con il guardiano notturno, che si attardava in disquisizioni tutt’altro che interessanti; un altro poco, con qualche conoscente mattiniero e ben disposto alle ciarle. Esauriti gli argomenti, congedati con la cortesia usuale le persone con le quali si era intrattenuto, il capostazione si sedette sulla seggiola di rimpetto al grosso tavolo di mogano del suo ufficio.
Dato uno sguardo fugace al personale del treno, che lo attorniava in silenzio; dette l’orine: “ Andiamo, affrettarsi per la partenza.” Questi annuirono; la squadra prese posto sul treno. Il manovratore, intanto, aveva allungato il passo lungo il sentiero che mena al deviatoio. Vi giunse. Impugnato il macaco, lo rivoltò nella giusta posizione, per consentire l’uscita del treno.
Il corpulento capo, si sollevò quindi dalla sua sedia; occhieggiò fuori dalle vetrate dell’ampio locale; tirò fuori dal taschino il suo Perseo, l’orologio a cipolla che l’amministrazione delle ferrovie gli aveva dato in dotazione. Controllò l’orario e, verificato che tutto fosse nel verso giusto, ne ordinò la partenza.
Lento il convoglio lascia la stazione, cigolano i cerchioni sulle rotaie lucenti, le traversine di rovere, schiacciate dal peso dei carrelli, si scuotono; rimbalza il macaco; silenziosi i vagoni, dopo avere svoltato la curva, si perdono dietro le canne che cingono la strada ferrata. Il capostazione, seguì pensieroso quello scorrere pigro. Si interrogò , se qualcosa non fosse andato per il verso giusto. Un dubbio improvviso gli balenò nella mente. Ma quel dubbio, fu subito una certezza crudele: quel treno non doveva partire!
Nessuno si era accorto del guaio; L’amnesia aveva contagiato l’intera brigata: quelli che adesso erano sul treno illegale e il manovale ch’era ancora ritto sul deviatoio. Ognuno di questi aveva la sua piccola fetta di responsabilità. E la propria dose di colpa.
Rabbrividì. Il pensiero del capostazione fu rivolto, a quello che sarebbe accaduto alla motrice, ai suoi passeggeri, ai colleghi di scorta e di condotta, se non si fosse intervenuti per tempo. Tosto si precipitò al telegrafo per inviare un messaggio di allarme. Non ci riuscì: il panico, che si era impadronito di lui, gli paralizzava le braccia, le dita e la mente. Ruppe l’indugio. Occorreva agire in altre maniere. Si precipitò dall’altra parte del fabbricato viaggiatori, dove teneva custodito il suo sidecar. Lo scoprì della coperta che lo riparava dalla salsedine. Al primo colpo sferzato al pedale con grande energia, il mezzo andò in funzione. Partì veloce, verso la stazione successiva. La strada era sgombra e permetteva la corsa veloce. Giunse al Fusaro, ma fu troppo tardi, il treno ch’era già giunto, aveva da lì a poco lasciato quel luogo e imboccata la grotta più avanti. Scorse quei vagoni infilarsi nel buio. Riprese l’inseguimento in direzione di Baia. Un estremo inutile sforzo.
Ugo intanto aveva accolto il treno proveniente dall’altro verso. Dopo che alcuni passeggeri furono scesi dalle carrozze, il conduttore diete il “pronti”; il trillo del suo fischietto ne ordinò la partenza. Si udì l’immediato tocco di tromba del capotreno ed, infine, il fischio dal locomotore avvertì l’avvio del convoglio.
Questo treno era composto da una motrice bidirezionale a corrente continua a 1500 Volt; da un vagone merci, preso dalle ferrovie Reggiane e da due eleganti carrozze di colore rosso vivo: l’una di prima classe e l’altra di seconda, costruite entrambe dalla società Fiat di Torino.
Licenziato il treno, Ugo si tolse il berretto e si rintanò nell’ ufficio. Non ebbe fatto che pochi passi all’interno di questo, che udì un intenso rumore di ferraglie. “Mi è sembrata la bomba H “ dirà più tardi ai colleghi. Comprese: quel treno si era scontrato, subito dopo essere entrato nella galleria.
Si portò ai binari. Corse verso quel tunnel. Vide, più avanti, i tubi della condotta dell’aria e i ganci di trazione posti sul retro dell’ultima vettura, ondeggiare vorticosamente. Riprese la corsa , entrò nella grotta. Dopo che ebbe fatto pochi passi all’interno di questa, scorse le motrici dei due treni: quella che era partita dalla sua stazione e l’altra proveniente da Torregaveta.
Queste erano incastrate, l’una nell’abitacolo dell’altra. Il carro merci era fuoriuscito dai binari, per lo scossone violento subito. Le urla si mischiavano ai gemiti di dolore che uscivano dai finestrini andati in frantume.
Avrebbe voluto portare aiuto a qualche poveretto, ma ritenne ciò un’impresa erculea, non adatta per le sue misere membra. Occorrevano braccia forti e mezzi poderosi. Decise il da farsi. Ripercorse a ritroso e a passo spedito l’intero tragitto. Si rinfilò nell’ufficio, agguantò con una mano il tastino del telegrafo, e con l’altra srotolò frettolosamente la “zona” di carta, per farla passare sotto il pennino inchiostrato. Completata l’azione, diffuse l’allarme.
Il luogo dell’incidente in poco tempo fu pieno di gente. I soccorritori si affaccendarono a estrarre, con la massima fretta, e con grande cautela i passeggeri da quelle lamiere contorte, delle motrici sventrate. La fortuna volle che non ci fossero vittime, ma solo diversi feriti; qualcuno più grave; tra questi, uno dei due guidatori vivrà per sempre adagiato ad una sedia a rotelle. L’altro, invece, era riuscito a scamparla: appena si fu reso conto di quello che stava accadendo, si mise in salvo, sgattaiolando, prima che fosse avvenuto l’impatto, fuori dalla cabina di guida.
Il povero Ugo trascorse una giornata infelice: corse su e giù per l’impianto, dispensò ordini, telefonò, telegrafò, si adoperò per l’assistenza ed al trasferimento dei feriti. Poi vennero le spiegazioni ai superiori, ed infine quelle per l’autorità giudiziaria . Una giornata inquieta, anche per quella piccola caffetteria della sala d’attesa, che fu presa d’assalto dai soccorritori e dai curiosi , e dalla fiumana dei ferrovieri che era piovuta in quel posto per dare una mano a sbrigar la faccenda. Fu una giornata propizia per quel gentile signore di mezza età, che da dietro al bancone distribuiva bevande ghiacciate e caffè generosi.
Geppino Basciano

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