Il carretto passava e quell’uomo gridava: ” ’u molafruovece, ’u molafruovece…”
Nel cuore di un tempo ormai lontano, gli arrotini erano artigiani ambulanti specializzati nella riparazione e nella manutenzione di coltelli, forbici e altri strumenti da taglio. Portavano avanti una tradizione secolare e offrivano un servizio economico alle persone che non potevano permettersi di sostituire costantemente i propri strumenti taglienti. L’affilatura era una soluzione conveniente che consentiva di continuare a utilizzare i loro utensili, preservando al contempo le risorse familiari e contribuendo alla sostenibilità ambientale.
Il loro caratteristico carretto, un’opera d’arte ambulante, irradiava un’aura intrisa di maestria artigianale e di una tradizione inalterata, un vero spettacolo per gli occhi. Una singola ruota, come una fedele compagna di viaggio, rappresentava il fulcro stesso di questo antico mestiere. Quella ruota non si limitava ad essere un semplice mezzo per spostare il carretto da un angolo all’altro del paese. Quando l’arrotino ribaltava con cura il carretto e si preparava ad intraprendere il suo magico rituale, quella stessa ruota assumeva un ruolo essenziale: azionata manualmente attraverso un pedale, con pazienza e perizia, aveva il potere di risvegliare la vita nascosta nelle lame ormai opacizzate dal tempo.
Uno dei più famosi arrotini che prestava servizio per le strade di Monte di Procida e Bacoli, negli anni ’50 e ’60 del 1900, si chiamava Luigi Petrone, un artigiano originario di Sant’Elena Sannita, un piccolissimo paese di arrotini che si trova in provincia di Isernia. Luigi, nato nel 1937, venne ad abitare a Monte di Procida nel 1962, quando sposò la giovane montese Delia ed andarono ad abitare prima al Corso Garibaldi e poi in Via Bellavista. Per lungo tempo, Luigi è stato anche il sacrestano della Chiesa di San Giuseppe, con il parroco don Loreto Schiano Lomoriello.
Con grazia e delicatezza, Luigi spingeva il suo carretto attraverso le strade del paese e come ogni artigiano ambulante, portava con sé un richiamo unico, un’invocazione che risuonava con la sua voce calma e gentile. “ ‘U molafruovece, ‘u molafruovece…”, pronunciava con serenità e pacatezza, una tenera melodia che echeggiava tra le case di tufo e i vicoli stretti. In quel richiamo, si celava il segreto di una tradizione antica: l’affilatura delle forbici. Le sue parole erano un invito alla comunità, un segnale che annunciava la sua presenza e la sua abilità. Era un grido che incarnava la promessa di dare nuova vita agli strumenti che avevano patito tante fatiche.
Le nostre care nonne, avvolte nei loro grembiuli scuri, si avvicinavano a lui con gratitudine portando coltelli e forbici usurati dal tempo, con i quali avevano condiviso così tante storie di vita. Con un sorriso gentile, le prendevano tra le mani e le porgevano a quell’omino stempiato e scuro di pelle, come se affidassero un tesoro a un custode di antichi segreti.
Le forbici, in particolare, erano oggetti di grande importanza. Non erano solo strumenti da taglio; erano le compagne fidate delle nostre antenate nei loro mestieri di cucito, modellamento e creazione. Erano testimoni silenziosi di abiti cuciti a mano, coperte trapuntate e tanti lavori artigianali.
Luigi accoglieva questi strumenti con il rispetto che meritavano, perché sapeva che in quelle lame c’era la storia di generazioni di donne e preziosi ricordi di famiglia.
I nostri contadini, uomini di poche parole ma di grande saggezza, si avvicinavano con i loro strumenti del mestiere. Le accette, le mezzelune, con le loro lame ricurve, avevano tagliato erba, fieno, rami e piante per anni e, segnati dal duro lavoro nei campi, avevano bisogno di cura e attenzione. Luigi sapeva che quelle lame erano più di semplici utensili; erano estensioni delle mani dei contadini che le usavano. Erano strumenti di vita, legati alle fatiche quotidiane e agli sforzi per nutrire le famiglie.
Il nostro arrotino, con le mani abili e il cuore in sintonia con la tradizione, lavorava spesso per macellai, barbieri e calzolai. Questi artigiani di mestiere richiedevano la sua maestria per affilare i loro coltelli, rasoi, trincetti ed altri attrezzi da lavoro. Era un momento di connessione tra due mondi artigianali, un atto di fiducia e rispetto reciproco.
Sopra il carretto, si ergeva la pietra circolare, una mola, il cuore del suo mestiere. In basso, un pedale saggiamente pompato con il piede destro, azionava la mola che cominciava a girare emettendo un leggero ronzio che diventava la colonna sonora di un rituale intriso di storia che si ripeteva da secoli.
Luigi apriva un piccolo rubinetto collegato ad un contenitore di latta, opportunamente posizionato sopra la mola e, con molta cura avvicinava ogni oggetto alla pietra, pronta a risvegliare la loro antica gloria. Le gocce d’acqua scendevano lentamente, una dopo l’altra, e battevano con cadenza regolare sulla pietra, come un metronomo che scandiva il ritmo dell’arte dell’affilatura e poi finivano a terra, lasciando una vistosa striscia d’acqua ed una traccia inconfondibile del suo passaggio. L’acqua aveva la funzione di lubrificare la mola e rendere possibile la magia dell’affilatura. Era una piccola cerimonia, una benedizione d’acqua che trasformava la pietra in uno strumento capace di dare nuova vita alle lame.
Quando la ruota affilata incontrava la lama, una sinfonia di scintille danzava nell’aria, come piccole stelle cadenti in un cielo notturno. I bambini si incantavano ad osservare quello spettacolo, un’esperienza che risvegliava la curiosità, un momento di magia e meraviglia che faceva brillare gli occhi dei più giovani.
E quando Luigi restituiva gli oggetti affilati, lucenti come specchi, c’era un senso di gratitudine profonda nell’aria. Era più di un semplice servizio; era un atto d’amore per l’artigianato, un momento in cui il passato si univa al presente in un intreccio armonioso di suoni e ricordi.
Il carretto di Luigi era più di un semplice mezzo di lavoro; era un’icona di un’epoca passata, una testimonianza di abilità artigianali tramandate di generazione in generazione.
Luigi Petrone ci ha lasciato nel 2011, all’età di 74 anni. Con il suo carretto e la sua arte, non solo conferiva nuova vitalità agli strumenti affilati, ma riportava in vita un frammento di storia e creava un legame profondo con il passato. Era un custode di tradizioni, un mago delle lame e un amico di ogni quartiere, un simbolo di un’epoca in cui il tempo scorreva più lentamente e l’arte dell’arrotino era una parte importante e preziosa della vita quotidiana.
–Pasquale Mancino