In questo attimo di vita sospesa, accolgo l’invito di un’amica a raccontare un momento di quotidianità mai realmente apprezzato: cosa vedo dalla mia finestra.
Quando scelsi di trasferirmi in questo appartamento sul quartiere collinare della città, cioè “ncopp’o vommero”, ciò che mi colpì fin da subito era la sua posizione: ad un piano altissimo di un palazzone tipico del quartiere; così in alto da poter ‘sucare’ (come disse un amico napoletanissimo naturalizzato altrove) la vita delle persone. Mi sono resa conto che dalla mia finestra vedo un pizzico di un mondo a suo modo completo e reale solo in questa dimensione. Volgendo quindi lo sguardo da est a ovest mi imbatto in una pasticceria a carattere familiare che generosamente mi sveglia con un dolce profumo di vaniglia, in contrasto con il forte aroma di caffè della prima ‘tazzulella’ quotidiana che seguirà.
Proseguo con lo sguardo. Percorro le scalette che caratterizzano il vico, e incrocio l’affaccendato fruttivendolo che insieme alla sua famiglia dispone, per la giornata, la coloratissima merce. Un ‘panaro’ napoletano pende da un balcone di un piano secondo del palazzo adiacente; nei giorni scorsi la canuta proprietaria ne spiegava il funzionamento, con un pizzico di orgoglio, alla nipotina divertita che issava la merce richiesta al mercante sottostante.
Credo che il panaro esprima l’essenza del popolo napoletano: praticità, essenzialità, fratellanza.
Vado oltre. Attraverso la strada principale e in lontananza mi soffermo su un palazzo dall’aspetto malconcio. I rimaneggiamenti nel tempo hanno inutilmente tentato di celarne l’età. Gli arconi seicenteschi che incorniciano le scale del secondo e terzo piano si sono armonizzati con l’eterea struttura dell’ottocentesco giardino pensile accarezzato della brezza marina del golfo. Ancora più in lontananza, tra i palazzi alti e stretti, uno squarcio di azzurro indistinto: il mare del Golfo che brilla al sole e la costiera sorrentina con le sue casette bianche arroccate sul mare. Di tanto in tanto mi capita, all’imbrunire, di vedere la nave da crociera che lentamente scivola sul mare. Chiudo gli occhi e mi sembra di sentire i tre suoni di tromba: l’enfatico commiato dalla sua terra natìa che rivedrà, da lontano, dopo sette giorni.
Ebbene, io mi immagino questa strada già nota nel seicento, in prossimità della dogana di antignano, pullulare di lavandaie con il bianco carico sulla testa, la nota “mappata” della nostra lingua, percorrere le scale, affaticate dal peso, e l’intenso odore acre di aceto diffuso per tutto il Vico Acitillo.
Fiorenza Grasso
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