Cappella è da sempre divisa in due tronconi, una divisione che ha creato non pochi problemi e tensioni per i suoi abitanti.
Nel corso del XX secolo, Monte di Procida ottenne l’autonomia municipale nel 1907, mentre Bacoli la ottenne nel 1919 ed il borgo di Cappella rimase unito solo geograficamente, mentre la sua identità si frammentava tra i due comuni confinanti.
Con poche case a destra ed altrettante a sinistra della strada principale, questo piccolo angolo di mondo contava cinquemila anime ed una singola chiesetta come luogo di culto nel suo centro storico.
La sua bizzarra divisione amministrativa segnava, però, la sua storia, frammentando il suo tessuto sociale e culturale. La Via Mercato di Sabato, arteria principale del borgo, non era, e non è, solo un confine geografico, ma anche un confine amministrativo. Le abitazioni a destra appartengono al Comune di Bacoli, mentre quelle a sinistra rientrano nel territorio comunale di Monte di Procida.
Un esempio emblematico di questa divisione si può trovare proprio lungo questa strada: l’abitante del numero civico 30 (ad esempio) della Via Mercato di Sabato trova i suoi doveri amministrativi a Bacoli. Va a votare a Bacoli, versa le sue imposte a Bacoli ed ha i suoi dati registrati presso il municipio di Bacoli. Ma, il suo dirimpettaio di casa, colui che risiede al numero 31 (sempre come esempio), è completamente inserito nel tessuto amministrativo di Monte di Procida. La sua scheda elettorale indica Monte di Procida come suo luogo di voto e le sue imposte sono destinate a questo comune.
Così, pur essendo una singola comunità, un’unica entità demografica chiamata Cappella, si ritrova divisa tra due comuni, in una complicata dicotomia che sembra sfidare la logica e la coesione di questo storico borgo.
Durante gli anni bui del fascismo, anche i Cappellesi alzarono la voce, chiedendo l’autonomia municipale. Ma le autorità fasciste non erano disposte ad ascoltare le loro richieste. Si narra che un milite del posto andò persino dal federale di Napoli per presentare la richiesta dei Cappellesi, ma ottenne solo una grossa risata in risposta.
Con la fine della guerra e l’avvento della democrazia, i Cappellesi videro una nuova speranza. Nel 1946, presentarono una dettagliata istanza alla prefettura di Napoli, chiedendo che Cappella fosse costituito in comune autonomo.
La richiesta giunse alla prefettura di Napoli verso la fine del 1946 e fu trasmessa al Ministero degli Interni che la restituì alla prefettura stessa, incaricandola di svolgere la pratica relativa. Così, un bel giorno il sindaco di Bacoli, Ernesto Schiano, ed il sindaco di Monte di Procida, Michele Coppola, si videro piovere sul tavolo una comunicazione dell’Amministrazione provinciale di Napoli che li invitava a dare il loro parere sulla richiesta presentata dai cittadini di Cappella.
La loro conclusione fu unanime: l’autonomia di Cappella avrebbe danneggiato tutti e due i comuni. Bacoli e Monte di Procida avrebbero perso parte dei loro già miseri introiti, mentre Cappella, essendo un borgo con scarse risorse, non avrebbe potuto sostenere un bilancio autonomo.
Cappella era davvero un borgo povero: aveva due sole avare fontanine pubbliche; una fognatura non c’era; la nettezza urbana era affidata ad un solo curvo, vecchio spazzino, pagato per metà dal Comune di Bacoli e per l’altra metà da quello di Monte di Procida. Diventare Comune autonomo, all’epoca, era decisamente un lusso che Cappella non poteva permettersi.
Così, la richiesta dei Cappellesi venne respinta, ma il loro spirito non si spense. Nonostante le difficoltà, i Cappellesi continuarono a raccontare il loro disagio a chiunque visitasse il loro borgo, sperando che qualcuno potesse portare la loro voce fino a Roma.
Contemporaneamente, i Cappellesi intensificarono la loro pressione su don Pasquale Mazzella, affinché interpellasse il senatore Luigi Einaudi in difesa della loro causa.
In quegli anni, don Pasquale Mazzella rappresentava indiscutibilmente la figura più autorevole e rispettata di Cappella. All’età di 85 anni, egli manteneva uno spirito arzillo e vivace, testimoniato anche dalla sua passione per i cavalli e la carrozza di sua proprietà. Quando Luigi Einaudi ricopriva la carica di Governatore della Banca d’Italia, dal 1945 al 1948, e sceglieva di trascorrere brevi periodi di riposo nella sua modesta residenza sulle rive del Lago Fusaro, era consuetudine per lui affidarsi alla carrozzella di don Pasquale.
Nel 1948, quando Einaudi venne eletto Presidente della Repubblica, don Pasquale mantenne un contatto frequente con lui attraverso lettere, alle quali Einaudi rispondeva cortesemente per mezzo del suo segretario. Nonostante questa vicinanza, il distinto ed educato vetturino cappellese non trovò mai l’occasione né il coraggio di sollevare la questione dell’autonomia di Cappella.
Ma, con il termine del mandato di Einaudi come Capo dello Stato, a partire dal maggio del 1955, la determinazione dei Cappellesi e la loro insistenza convinsero don Pasquale a prendere le redini dell’iniziativa, cercando finalmente di ottenere giustizia per il suo amato borgo.
Si dice che don Pasquale scrisse ad Einaudi la seguente lettera:
“Illustre Senatore, veda di darci una mano, se può e se lo vuole.
Siamo solo in cinquemila a Cappella; abitiamo in un centinaio di casupole, abbiamo una sola strada, una sola chiesetta ed un solo parroco.
Illustre Senatore, due sindaci per Cappella sono davvero un po’ troppi!“.
Ma, con ogni probabilità, questa missiva rimase confinata nel silenzio, e Cappella non vide mai realizzarsi il suo ardente desiderio di autonomia municipale.
— Pasquale Mancino