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Febbraio 1967, il tragico destino della Murex e dei suoi marinai


Nel mese di febbraio del 1967, il destino crudele intrecciò le sue trame intorno alla motonave Murex, un’imbarcazione di modesta stazza ma di grande importanza per i sette uomini che ne componevano l’equipaggio. Questa nave, che solcava abitualmente le acque tra l’Italia e la Libia, divenne il palcoscenico di una storia avvolta, ancora oggi, nel mistero e nella tragedia.

La Murex, di 353 tonnellate di stazza lorda ed iscritta al numero 973 del registro marittimo di Napoli, salpò da Chioggia (Ravenna) agli inizi di febbraio del 1967 con un carico di merce varie e con rotta verso Bengasi (Libia).
Il capitano Vincenzo Schiano Moriello, trentenne di Monte di Procida, aveva appena preso il comando della nave, sostituendo un collega il cui destino era stato drammaticamente segnato da un evento familiare: la grave malattia della moglie. Questo cambio di comando, segnato da circostanze personali dolorose, sembrava preludere agli eventi nefasti che avrebbero colpito la Murex ed i suoi uomini di bordo.

L’equipaggio della motonave, di proprietà dei fratelli Ievoli di Torre del Greco, era un microcosmo di vite e storie, unito dalla vita in mare. Oltre al capitano Schiano Moriello, vi erano il capo macchinista Giosuè Scotto Rinaldi, anche lui trentenne e montese come il capitano; il nostromo Antonio Izzo di 32 anni da Torre del Greco; il cuoco Pasquale Di Santo di 33 anni da Napoli; il motorista Giovanni di Costanzo di 23 anni da Casamicciola; i marinai Fortunato Cavallaro di 28 anni da Napoli e Angelo Sambi diciassettenne di Chioggia.

La piccola motonave, costruita nel 1952 nei cantieri Apuania di Marina di Carrara, giunse senza problemi a Bengasi e dopo le rituali operazioni di scarico delle merci, ripartì dalla Libia con le stive vuote, il 12 febbraio 1967. Subito dopo la partenza, la Murex navigava come previsto; le comunicazioni rassicuravano che tutto procedeva secondo la norma, con il mare calmo e un leggero vento di scirocco a favorire il loro viaggio. Ma l’ultima comunicazione, quando la nave si trovava a circa 160 miglia a sud di Capo Passero (Siracusa) e captata da un radioamatore siciliano, segnò l’inizio di un silenzio inquietante. Da quel momento la Murex, con tutti i suoi uomini, svanì senza lasciare alcuna traccia.

La motonave era dotata di due scialuppe di salvataggio e di zattere di legno, pronte ad accogliere l’equipaggio qualora fosse stato necessario abbandonare la nave. Ma, prevalse il timore che un tragico evento si fosse manifestato con tale rapidità ed inattesa comparsa da impedire qualsiasi tentativo di lanciare segnali di soccorso, precludendo così anche ai marinai, nonostante la loro esperienza, la possibilità di mettersi in salvo.

La ricerca della Murex mobilitò aerei, elicotteri e navi, che perlustrarono disperatamente una vasta area tra la Sicilia e le coste libiche, ma il mare continuava a non restituire alcuna traccia della nave e del suo equipaggio. Le ipotesi si susseguirono: dalla possibilità che una tempesta improvvisa avesse costretto la nave a cercare rifugio in un porto non previsto, all’atroce pensiero che la Murex potesse essere affondata, inghiottita dalle furiose acque del mare in tempesta.

Il mistero della scomparsa della Murex si addensò nei giorni successivi. La tensione crebbe man mano che il previsto arrivo a Napoli, il 14 febbraio, veniva meno. Le famiglie degli uomini di bordo, insieme a tutta la comunità marittima di Monte di Procida e Napoli, furono avvolte da un’ansia crescente, mentre le speranze di ricevere notizie positive si scontravano fortemente con il timore di una tragedia inimmaginabile.

A Monte di Procida, quei giorni divennero un interminabile attimo di angoscia e di straziante attesa. Il capitano Vincenzo Schiano Moriello, figlio della nostra terra, aveva lasciato dietro di sé una giovane famiglia: sua moglie Maria Mancino di 23 anni ed i loro due piccoli figli: Strato, un bimbo di appena un anno e mezzo che iniziava a muovere i primi passi incerti e Salvatore, un neonato di solo un mese di vita, ancora avvolto nel caldo e dolce silenzio della sua culla.

Maria, con il cuore stretto in una morsa di disperazione, trovava un po’ di conforto e sostegno nella madre Francesca Fevola e nel parroco don Gennaro Romeo, sempre presente e vicino al dolore delle tante famiglie montesi colpite da simili disgrazie. Insieme al maresciallo della caserma dei carabinieri, in una sorta di vigilanza silenziosa e speranzosa, mantenevano un filo diretto con la società armatrice Ievoli, la cui sede era a Napoli in via Santa Brigida, sperando ogni giorno in una chiamata, un segnale, una notizia che portasse un barlume di speranza. La stessa ansia avvolgeva la casa di Giosuè Scotto Rinaldi, il macchinista montese della Murex. Anche se non sposato, Giosuè era il fulcro affettivo della sua famiglia, che lo attendeva speranzosa in via Allegra.

Per le strade di Monte di Procida, i nostri concittadini si scambiavano sguardi di mutuo sostegno, mentre le preghiere si levavano più ferventi nelle chiese del paese, con tutta la nostra comunità unita nel chiedere il ritorno dei suoi marinai. Nelle case, sui volti segnati dalla stanchezza e dall’attesa, si leggeva la stessa domanda senza risposta. La notte portava con sé un silenzio assordante, rotto solo dai sospiri e dalle preghiere di chi non trovava più pace.

Nel nostro piccolo paese, il tempo sembrava essersi fermato, con ogni giorno uguale al precedente, segnato solo dalla crescente disperazione di non avere notizie. Le famiglie vivevano appese a un filo di speranza sempre più sottile, in una tensione che sembrava non trovare mai sbocco.

La nostra comunità, abituata al duro lavoro e alle sfide che il mare impone, si trovava di fronte all’impotenza di non poter agire, di non poter solcare le onde alla ricerca dei propri cari, di dover attendere, inermi, notizie che non arrivavano. In questo doloroso limbo, il legame tra i familiari delle vittime, sostenuti dal calore della comunità, divenne l’ancora a cui aggrapparsi, nella speranza che il mare, così profondamente intrecciato nelle loro vite, potesse ancora restituire i loro cari alla luce del sole.

Il 25 febbraio 1967, le ricerche furono sospese. L’unico spiraglio rimasto era l’invito alle navi nel Canale di Sicilia a segnalare eventuali relitti o naufraghi, mentre le indagini si estendevano a tutte le coste nordafricane, in una speranza sempre più flebile di trovare tracce della Murex o dei suoi uomini.

Ma, tra le onde capricciose ed i segreti insondabili dell’immensità marina, né un frammento della Murex né il corpo di uno dei sette uomini di bordo furono mai più ritrovati. Come se il mare avesse deciso di custodire per sempre il mistero della loro scomparsa, lasciando dietro di sé un vuoto incolmabile.

Le famiglie, gli amici, l’intera comunità marittima montese e napoletana si trovarono a dover accettare l’insopportabile realtà di un addio senza ritorno, di storie interrotte che il tempo non potrà mai dimenticare.

La tragica e misteriosa scomparsa della Murex e del suo equipaggio lasciò un vuoto nel cuore di tutta l’Italia che seguiva con apprensione la triste vicenda attraverso i giornali e la televisione.

Questa storia, con il suo carico di speranza, attesa e disperazione, riflette l’eterno conflitto tra l’uomo e il mare, un elemento tanto vitale quanto imprevedibile.

La memoria degli uomini della Murex e del loro disperato tentativo di sfuggire alla sorte avversa, vive nel ricordo di chi ancora oggi cerca risposte nel silenzio del mare.

In memoria degli uomini della Murex
Pasquale Mancino

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