Nel corso del XVII e XVIII secolo, i puteolani ed i loro gabellieri esercitarono numerose estorsioni nei confronti dei primi abitanti del Monte, reputati forestieri e quindi pretendendo e riscuotendo ingenti somme di denaro sotto il nome di “esazioni“.
Essi si avvalsero di intimidazioni, rappresaglie, carcerazioni e violenze. Numerosi processi si svolsero nel corso di quei secoli, riguardanti questioni come farine, pane, vino, botti, bilance, barili e somiere. Nonostante i vari decreti e sentenze emessi dalla Regia Camera a favore dei Montesi, i gabellieri puteolani non smisero mai di perseguire i nostri predecessori, rinnovando continuamente le loro insolite ed ingiustificate pretese.
La disputa si intensificò nel corso del tempo, con i puteolani che cercavano di far valere la loro autorità sul Monte di Procida, ma le sentenze e i decreti successivi continuarono a favore dei montesi. In particolare, il decreto della Regia Camera del 20 luglio 1803 ordinò ai gabellotti di Pozzuoli, sotto pena di 1000 ducati, di non contravvenire alla sentenza del 25 settembre 1782 e stabilì che ai coloni del Monte fosse lecito portare il pane per una settimana ed altri commestibili per uso e consumo della propria famiglia.
Questo decreto venne riportato sulle riggiole della Chiesa di S. Maria Assunta in Cielo ed è tuttora lì a testimoniare la lunga e ardua battaglia affrontata dai nostri antenati nella difesa dei loro diritti.
Nel 1781, a causa delle numerose oppressioni subite, i montesi si ribellarono apertamente. Cinque gabellieri puteolani, guidati da Filippo Mirabella ed accompagnati da sette soldati armati, effettuarono delle incursioni notturne sul Monte alla ricerca di abitanti sospettati di contrabbando di farina.
Quel giorno però, i gabellieri puteolani trovarono sulla loro strada don Biagio Porta, un temerario sacerdote che abitualmente andava in giro armato di schioppo, un rudimentale fucile che usava per la caccia. Don Biagio era alla testa di un gruppo di circa cinquanta montesi armati di archibugi, scuri, forconi e altri attrezzi da lavoro.
Porta accusò i gabellieri di rubare farina ai montesi, mentre i gabellieri negarono le accuse. La situazione si inasprì duramente quando don Biagio minacciò i gabellieri e ordinò che fossero catturati e legati. Durante l’alterco, si verificarono scontri fisici tra le due fazioni, con lancio di pietre e spari di fucile.
Nel frattempo, altri Montesi si unirono alla banda guidata da don Biagio Porta, formando un gruppo armato di qualche centinaia di persone.
Su ordine del Mirabella, i soldati puteolani, si scagliarono contro il prete montese, procurandogli diverse ferite. A quel punto gli agguerriti contadini del Monte, forti del loro numero, accerchiarono ed attaccarono i puteolani che tentarono la fuga, ma vennero catturati e fatti prigionieri.
Dopo questo episodio, don Biagio Porta e gli altri montesi feriti furono curati, mentre i puteolani furono arrestati e portati a Napoli per un processo. Nonostante le testimonianze dei montesi e i documenti che comprovavano le violazioni commesse dai puteolani, il processo si concluse con la libertà provvisoria dei gabellieri e dei soldati.
Questo evento rivela la lunga e dura lotta che i nostri antenati montesi hanno dovuto sostenere per difendere i propri diritti e la difficoltà nel perseguire la giustizia. È un episodio che invita alla riflessione sulle dinamiche di potere e sulle ingiustizie presenti nella società del tempo.
Il coinvolgimento del prete Biagio Porta suscita riflessioni sul ruolo e l’influenza della Chiesa nella società dell’epoca. Da un lato, il suo intervento sembra derivare dalla consapevolezza delle disposizioni emanate dalla Regia Camera che garantivano ai montesi il diritto di conservare e utilizzare pane e farina sul Monte. Dall’altro lato, la sua posizione di autorità religiosa sembra aver scatenato ulteriori violenze nei suoi confronti, evidenziando come anche i membri del clero non fossero esenti dalle tensioni sociali e dalle dispute di potere.
Dalla testimonianza di uno dei puteolani che prese parte ai fatti del 1781, risulta che ad un certo punto “…un tal Bartolomeo, garzone del signor Nicola Scialoia, diede fiato a una conchiglia, al suono della quale in un momento unironsi più centinaia di Procidani anch’essi forniti d’ogni sorta d’armi“.
Sebbene le testimonianze dei puteolani furono abilmente alterate a propria convenienza, il dettaglio della conchiglia è molto verosimile, in quanto la tradizione di utilizzare conchiglie marine come strumenti per generare suoni risale a migliaia di anni fa e si è sviluppata indipendentemente in diverse parti del mondo.
Diverse specie di conchiglie potevano essere impiegate, ma dalle nostre parti, una delle più comuni era quella nota come “tromba di Tritone” o “conchiglia del corno“. Da noi prese il nome di Cuórno o Tófa, da cui deriva il verbo “tufò” che vuol dire emettere un suono, un segnale sonoro di avvertimento.
L’uso delle conchiglie, come strumento di segnalazione, era ben noto ai nostri antenati marinai che la utilizzavano per comunicare tra barche diverse in mare aperto, specialmente in condizioni di nebbia, visibilità ridotta o in caso di emergenze. Ogni imbarcazione che prendeva il largo doveva avere a bordo almeno una conchiglia adattata appositamente per produrre suoni udibili e distinti. Fino agli anni ’50 del 1900, a bordo delle imbarcazioni cosiddette “del golfo” vi era ancora la presenza della tófa.
Molto spesso i nostri antenati pescatori usavano la tófa per comunicare con la propria famiglia sulla terraferma, sfruttando segnali sonori prestabiliti per inviare anche semplici messaggi del tipo: “butta la pasta, sto arrivando” …una sorta di SMS del passato 😉
È quindi abbastanza plausibile che i nostri predecessori, spesso sia contadini che marinai, impiegassero la tófa anche a terra, come strumento di comunicazione. Questo antico metodo consentiva loro di rimanere in contatto, coordinarsi e mobilitarsi in situazioni di estrema importanza o quando si trovavano di fronte a pericoli imminenti. La tófa rappresentava un mezzo di allarme immediato nei casi in cui si rendeva necessario il supporto collettivo, proprio come in quell’occasione del 1781.
Negli anni ’50 del 1900 a Monte di Procida vi era Raffaele Guida detto “Buzziello“, il quale possedeva varie conchiglie di diverse dimensioni ed insegnava a suonarle ai ragazzini della Corricella, tra i quali anche mio padre Raimondo Mancino. Quelle stesse conchiglie venivano utilizzate anche come ornamento nella preparazione del bellissimo altarino della Corricella, in occasione delle processioni religiose.
Questo metodo primitivo di comunicazione è stato gradualmente sostituito nel corso del tempo con l’avvento di tecnologie più avanzate, come le trombe a vapore e, successivamente, i sistemi di comunicazione radio.
Grazie al proficuo impegno di Lello Guida, nipote di Buzziello, ed alla gentile disponibilità dei suoi cugini Antonio e Loredana Francesca Schiano di Cola, sono riuscito a procurarmi le fotografie di una delle tófe di Rafèle Buzziello. Questa preziosa conchiglia è ancora oggi amorevolmente conservata e custodita con affetto dai suoi orgogliosi nipoti.
Questa invece, è la tófa custodita dalla famiglia De Biase; era di proprietà del marittimo Nicola De Biase, detto Nicola a Lisetta.
Di seguito la centenaria tófa del veliero “Lucia Scotto“, degli anni ’20, appartenuto a Giuseppe Scotto detto “Sacchettone“. Grazie a Lucia Scotto, nipote di Giuseppe, per averla condivisa con noi.
Se anche voi possedete una di queste vecchie tófe, sarei grato se poteste condividere una foto. Vi ringrazio anticipatamente.
–Pasquale Mancino