Ho iniziato a fare teatro nel 2010: dopo aver perso una scommessa fui praticamente costretto dal mio amico Domenico Prodigio a partecipare ad uno dei laboratori condotti dal professor Ernesto Salemme, al Liceo Seneca di Bacoli.
Dallo stesso Domenico Prodigio fui convinto, pochi mesi più tardi, ad affiliarmi tra le fila dell’associazione Archè, associazione di cui faccio tutt’oggi parte e di cui sono orgogliosamente alla presidenza. E nel bel mezzo della carriera universitaria pensai bene di dare una svolta alla mia vita con l’ingresso all’accademia d’arte drammatica del Teatro Bellini di Napoli, la Bellini Teatro Factory, nella quale mi sono diplomato in regia e drammaturgia nel novembre 2019.
Quando Monica Carannante mi ha chiesto di scrivere un articolo per questa rubrica, ho pensato di rendere pubblica la mia esperienza come lavoratore del mondo teatrale, ma riflettendoci ho pensato che non sarebbe stato utile per nessuno, o quasi.
Ho dunque deciso di utilizzare questo spazio per condividere una riflessione che spero possa darvi un nuovo sguardo sul teatro.
Quella del teatro, tra i comuni di Monte di Procida e Bacoli, è una faccenda assai strana.
Non so se ne siete a conoscenza, ma per entrare a far parte di un’accademia di formazione per attori bisogna partecipare a provini che includono molteplici fasi di selezione, insieme a diverse centinaia di provinanti provenienti da tutta Italia.
Nel ristretto cerchio delle mie amicizie, annovero un numero di attori e attrici professionisti a dir poco assurdo se pensiamo al fatto che proveniamo tutti bene o male dagli stessi 17 chilometri quadrati. Facendo la conta, abbiamo Davide Mazzella (Teatro Stabile di Genova), Gigi Bignone (Teatro Stabile di Genova), Mario Cangiano (Teatro Stabile di Genova), Lucienne Perreca (Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi), Stefano Carannante (Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi), Sara Guardascione (Teatro di Napoli), Sara Scotto di Luzio (Officina Pasolini di Roma), Simone Mazzella (Bellini Teatro Factory), Gianni Nardone (Teatro di Napoli), Antonio Basile (Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico). Prima di loro, sono diventati
professionisti della scena altri conterranei, tra cui Dario Barbato, o i più noti Michele Schiano di Cola, Gennaro Di Colandrea, Geremia Longobardo, Mimmo Borelli. E non ho citato chi è solito stare “dietro” al palcoscenico: lo scenografo Enzo Aquilone, la costumista e scenografa Ilaria Carannante, la sarta di scena Lia Anzalone.
Quest’elenco così folto di nomi dovrebbe bastare a far pensare ai teatranti come a un orgoglio per Monte di Procida e Bacoli, quasi quanto la cistecca, o le cozze, o il basket, o, volendo esagerare, la marineria.
In verità, spesso manco si sa che esistiamo.
Se mi chiedono “Che lavoro fai?” e rispondo “L’attore”, o “Il regista”, mi viene ribadito “Si, ma di lavoro che fai?”. O meglio ancora, se dico “Mi occupo di teatro”, una delle risposte più comuni è “Ah! Anche mia nipote fa teatro!”, per poi scoprire che la suddetta nipote recita “I tre Porcellini” insieme ai cuginetti fuori al balcone della nonna (nulla da obiettare contro “I tre Porcellini”, anzi, ci sarebbe molto da dire, ma non è questa la sede). Non c’è la minima traccia di coscienza sul fatto che si tratti di un lavoro a tutti gli effetti, che come tutti i lavori richiede anni di studio, dedizione continua, sacrifici importanti.
E nessuno che si chiede come mai, in uno spazio così ristretto, tutta questa gente ha deciso di fare del teatro e delle arti sceniche la propria vita. Perché è successo?
Mi piace pensare che sia la terra che calpestiamo, il fuoco e le pietre che ci sono sotto, a darci la voglia spasmodica di salire su un palcoscenico e raccontare storie; perché è di questo che si tratta, raccontare e raccontarsi; la soluzione più antica del mondo adottata dai vivi per combattere la morte (Boccaccio docet) ma non solo: più di ogni altra cosa, il teatro ci fa capire chi siamo, senza farci del male, perché sul palcoscenico, con arte e con mestiere, c’è qualcuno che “si fa male” per me, permettendo la famosa catarsi (per citare Schopenhauer, “Non andare a teatro è come fare toeletta senza uno specchio”).
Tante belle parole, si, ma è davvero necessario, questo teatro? Se ne ricorda qualcuno? La gente ci va?
In questi mesi (o forse sarebbe più corretto dire “in questo anno”) di emergenza, ci siamo interrogati a fondo sulla necessità del teatro.
Nei lunghi discorsi televisivi del Presidente del Consiglio vengono nominati tutti, veramente tutti: mai una parola sul teatro. Come se non esistesse, neppure come settore economico.
Alle proteste degli addetti ai lavori, un signore, che dice di essere il Ministro per i beni e le attività culturali, propone di creare la “Netflix della Cultura Italiana”, grazie alla quale ci si potrebbe godere, direttamente da casa, teatro, danza, musica, arti circensi. A me un po’ fa ridere e un po’ lo compatisco; effettivamente il teatro sembra roba vecchia se paragonato al mondo in cui viviamo: come può una crocchia di intellettualoidi radical chic abituati a prendere polvere in ovattate scatole di legno e velluto competere con le pay tv, lo streaming online, le moderne tecniche cinematografiche?
La risposta, a mio avviso, è piuttosto semplice e banale: non può. Non può perché sono due sport completamente diversi, che si giocano in campi diversi, con palle diverse, con atleti diversi.
Non so se avete mai provato a guardare uno spettacolo teatrale in streaming. Se la risposta è sì e siete ancora vivi (o credete di esserlo), vi faccio i complimenti.
Complimenti perché siete riusciti a convivere con tutta una serie di maledettissimi filtri che non avrebbero necessità di esistere, che appiattiscono bidimensionalmente quello che invece dovrei avere di fronte e intorno a me, vale a dire spazi, volumi, sensazioni; perché siete stati condotti dall’abile mano di un montatore video che vi avrà portato puntualmente e pedissequamente a guardare l’attore in battuta, di fatto privandovi dell’esperienza teatrale in senso lato che non deve e non può prescindere dal vivere insieme il “momento”, pubblico e attori, in maniera politica, nel senso più alto del termine.
Il teatro (fatto bene) è ancora un validissimo strumento antropologico, che scandaglia l’essere umano come pochissimi altri mezzi riesce a fare. Inutile dirvi che chi lo pratica sente questa necessità con tutta l’anima: pescando tra le personalità del mondo teatrale che ho avuto modo di conoscere, penso alla poesia, carne e sangue del teatro di Borrelli; a Orlando Cinque che si eleva quasi magicamente parlando di quanto Strindberg abbia ancora da offrirci; a Michele Schiano di Cola e ai meravigliosi percorsi dei suoi laboratori, alla foga e alla dedizione che impiega per ogni singola scena, per ogni singolo allievo; a Daniele Russo, co-direttore del Teatro Bellini insieme al fratello Gabriele, che dà l’anima interpretando Jennifer davanti a venti persone contate nella sala ridotta del teatro a causa delle norme Covid (che in condizioni normali ospita circa mille spettatori) perché, sì, è necessario dare l’anima per quelle venti persone; allo stesso Gabriele che da regista “brucia” (si fa per dire) una giornata di prove per discutere otto ore con gli attori della deriva delle estreme destre e che conclude la stessa giornata dicendo “E adesso andiamolo a spiegare quello che facciamo qua dentro”.
E come possiamo spiegarvelo, noi teatranti, quello che succede in teatro?
Un’educazione teatrale forte è l’espressione di una forte educazione civica.
In Italia, purtroppo, l’una e l’altra risultano parecchio manchevoli.
Questo ha generato molto spesso un teatro che non parla alla gente. E gente che non va a teatro.
Ma vorrei ripartire e sperare in un nuovo inizio cominciando da chi, come me, ha quel fuoco e quelle pietre di cui parlavo sotto i piedi. Cominciando da voi montesi e bacolesi, per dirvi che esistiamo e che siamo convinti di poter dare qualcosa.
Provate a lasciarvi convincere da un giovane di 27 anni che ha deciso di dedicare a questo la sua vita e che si spacca la testa giorno dopo giorno per capire come parlare alla gente, per capire come un attore può funzionare per il pubblico agendo su un testo e viceversa. Oppure, se non volete credere a me, pensate agli altri flegrei che vi ho citato, che hanno intrapreso i loro percorsi in nome di una fede che li spinge a credere al bisogno e alla necessità di raccontare.
Oggi più che mai, in un tempo in cui facciamo fatica ad essere riconosciuti come lavoratori e come artisti dai più, abbiamo bisogno di sentirci vivi, necessari.
Venite a trovarci in teatro non appena ci sarà la possibilità di entrarci, in questi benedetti teatri.
Chiedete a me se non sapete come fare, o a uno qualsiasi degli altri nomi che vi ho citato.
Aiutateci a vivere. Per quanto può valere, vi prometto che ricambieremo.
Il nostro sangue è un torrente di fuoco
fluente, impetuoso in grovigli di vene.
L’anima nostra io adesso qui invoco,
fumo sulfureo parlante diviene,
e il nostro cuore di tufo poroso
trasuda parole d’acqua fumante:
a questa crosta di terra son sposo
devoto, tenero figlio ed amante.
Alla ricerca di noi stessi siamo,
dell’essere umano, in ogni suo aspetto,
ed è per questo che rappresentiamo
con voce, corpo, dolore ed affetto
quello che siamo. Finché noi vivremo
il teatro vivrà. Macchine di carne
e atleti delle emozioni saremo,
per donare vite ed insieme trarne
da ogni uditorio che vorrà ascoltarci.
Io ve ne prego, apriteci il cuore,
non ci lasciate, vogliate aiutarci,
uniamoci insieme, facciamo l’amore.
Salvatore Scotto D’Apollonia
Tutti i racconti di Una Finestra sul Mondo. A cura di Monica Carannante
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