A mio padre Federico e ai miei zii Aniello e Marisa
Monte di Procida 1900, la locanda di nonna Livietta
Ogni volta che mi avvicino alla storia locale, scopro sempre qualcosa di curioso e sorprendente ….
Vi racconto la storia di una famiglia montese, una delle tante storiche famiglie del piccolo comune flegreo, conosciuta come ‘U Monaco. I ricordi più recenti riconducono a Ricuccio (Enrico) stimato in paese per la sua bontà e generosità. Ricuccio ‘U Monaco è stato tra gli ultimi eredi della tradizione colonica Montese.
Zì Ricuccio, così lo chiamavano i tanti nipoti che frequentavano la sua casa, era il quarto di 7 figli di Aniello Scotto (di Marco) e Livia Mazzella. Aniello era colono di una proprietà privata appartenente a Luisa Scotto di Uccio vedova Schiavo, di Procida . Il contratto di fitto fu firmato nel 1905. Nelle carte d’archivio si legge che in detta data il fondo, costituito per lo più da vigneti, situato nella contrada Cercone, località chiamata in precedenza cercolone per la presenza di una grande quercia, passò in fitto dagli eredi del colono Coppola Domenico al colono Vincenzo Scotto di Marco e successivamente a suo figlio Aniello.
Nel 1905 Monte di Procida stava vivendo un periodo di grandi cambiamenti. Il Monte, detto dagli isolani di terra ferma, era una contrada dell’isola di Procida, che si apprestava a raggiungere l’autonomia comunale avvenuta il 27 Gennaio del 1907, Ludovico Quandel (1839 -1929), ufficiale borbonico, che dopo l’unità d’Italia (1861) si ritirò a vita privata sul promontorio montese, ne fu il promotore. La cittadina flegrea era nel pieno sviluppo economico, l’attività agricola era il motore trainante, tanto che i prodotti venivano venduti nei mercati di Napoli e Pozzuoli, trasportati con carri rudimentali o via mare su piccole imbarcazioni.
L’autonomia comunale diede un maggiore slancio allo sviluppo socio-economico del paese grazie all’introito di risorse che, via via furono impiegate nel miglioramento sia delle attività economiche sia dei servizi pubblici.
Il terreno gestito sin dal 1905 dalla famiglia Scotto (di Marco), come si legge dai documenti d’archivio, era compreso tra via Caranfe e via Pietro Colletta e possedeva un fabbricato rurale ed uno urbano. L’abitazione originaria, dunque, constava di un Cellaio ed una casa colonica. Il cellaio era una costruzione agricola con particolari caratteristiche legate alla vendemmia e alla conservazione del vino (per saperne di più, Nestore Antonio Sabatano, I cellai di Monte di Procida, autori e editori 2016), accanto al quale veniva costruito un piccolo alloggio per i contadini.
L’immobile, del fondo rurale di cui sopra, con il tempo subì degli ampliamenti dovuti ad esigenze lavorative e personali. Infatti, come si evince dai documenti d’archivio, la signora Luisa Scotto di Uccio di Procida, aveva riservato per lei un fazzoletto di terra, che le avrebbe permesso di ritornare di tanto in tanto al Monte. Per questo fu sopraelevato, sull’originario fabbricato, un appartamento, molto ampio e comodo ad uso dei proprietari: la casa del padrone, così era indicata dai condomini coloni.
Il terreno era vasto e questo consentiva una variegata attività produttiva. La principale coltura era la vite, abbondante era anche la produzione di legumi quali fave, fagioli, ceci, cicerchie, piselli, ortaggi di ogni genere e per ogni stagione, immancabili gli alberi di limoni e fichi. Vi era anche una modesta attività di allevamento: suini, bovini, polli e conigli da fossa. I bovini producevano anche latte che puntualmente veniva venduto sia in paese sia fuori. Inoltre una piccola parte del terreno era dedicato alla coltivazione della pianta da lino, che una volta fiorito veniva estirpato dal terreno e portato a Lagopatria per la macerazione alla quale seguiva l’essiccazione e poi attraverso procedimenti meccanici si separava la fibra dalle parti legnose e dalla fibra si produceva lo stoppino, esso passava attraverso la filatura per poi essere tessuto, quest’ultimo veniva venduto. L’attività agricola era a conduzione familiare.
Aniello Scotto (di Marco) viveva, nella casa colonica del fondo rurale, con sua Moglie Livia Mazzella e i loro figli Antonio, Luisa, Nicola, Enrico, Maria e Concetta. Avevano anche un altro figlio che morì prematuramente cadendo dal carro, si chiamava Vincenzo come il nonno.
Livia era una donna energica, intraprendente, coraggiosa, intelligente così come molte donne montesi del tempo. Donne emancipate che portavano avanti la famiglia assistendo, spesso, i mariti nel lavoro dei campi, curando la famiglia e gestendo con parsimonia e ponderatezza le proprie risorse finanziarie.
Livietta, così la chiamava il marito, per arrotondare e aiutare la famiglia, aveva affiancato all’attività agricola, quella ristorativa (all’epoca, rudimentale). Infatti, nella cantina, dove erano conservate le botti con il vino e gli utensili per la vendemmia, aveva allestito dei tavoli, dove i viandanti potevano sedersi, bere e mangiare. Una vera e propria locanda posizionata su strada; via Caranfe, che collegava Monte di Procida a Cappella e a Baia. C’era un menù fisso del giorno, quello che cucinava per i propri figli lo offriva dietro compenso ai viandanti: venditori ambulanti, contadini di passaggio, lavoratori di ogni genere. Livietta offriva zuppe di legumi, di produzione propria, insalate di ortaggi, carne di pollo , coniglio di fossa o maiale, allevati nella sua campagna. Era una attività abbastanza remunerativa per quei tempi, che le servì soprattutto, dopo la morte del marito a comprare nuovi terreni che furono donati a ciascun figlio.
Era il 1930, nella locanda di Livietta, era frequentata da un ragazzo di Pozzuoli, un pescatore che veniva a Monte di Procida per vendere il suo pescato. Si chiamava Antonio ed era originario del borgo di santa Maria delle Grazie, lì dove vivevano tutti i pescatori. Antonio era bello, biondo, occhi verdi, parlava solo il dialetto puteolano, aveva studiato alla scuola della vita, era infatti pescatore da quando aveva 6 anni, insieme a suo padre e ai suoi fratelli gestiva una modesta attività di pesca. Antonio portava un cognome identificativo della terra di Pozzuoli “Chiocca”. Dai documenti d’archivio risulta che la famiglia Chiocca si sia stabilita a Pozzuoli nel 1600 ca, la cui principale attività era la pesca. Non a caso il termine chiocca deriva dal latino coclea che significa conchiglia (da ricerche personali).
Nella locanda di Livietta, Antonio apprezza la gentilezza e la dolcezza di una delle figlie, Luisa. A quei tempi i ragazzi non potevano accostarsi alle ragazze per non comprometterne l’onorabilià. Dunque attraverso un amico montese, Antonio chiese alla madre di Luisa il permesso di conoscerla.
Livietta era molto preoccupata; non conoscendo nè il ragazzo nè la famiglia, mandò a Pozzuoli, una persona fidata a prendere informazioni su di lui. Costui si assicurò che Antonio provenisse da una buona famiglia e che, soprattutto, fosse un bravo ragazzo dedito al lavoro.
Dopo molti anni in cui Livietta dovette gestire da sola il fondo e la locanda, in seguito alla morte del marito Aniello, vi subentrò il figlio Enrico, migliorando il profitto del fondo. Livia quindi non ebbe più bisogno della locanda.
Nel 1935 Antonio e Luisa convolarono a nozze. Nel 1939, dopo la nascita del primogenito, mio padre Federico, Antonio fu chiamato al fronte. Luisa restò sola per circa tre anni, crebbe il suo piccolo grazie all’aiuto di suo fratello Enrico e di nonna Livietta, che morì tra il 1942 e il 1945. Nel ‘41 circa mio nonno, dopo aver disertato scappando dalla Jugoslavia, fece rientro a casa, dove lo aspettava mia nonna Luisa dalla quale ebbe altri due figli Aniello e Marisa.
Gli anni della guerra furono anni particolari per Monte di Procida, la cittadina flegrea infatti si trovò ad essere base di operazioni belliche. Infatti, fu trasferito il silurificio italiano di Napoli, da Gianturco a Baia nel 1935 per facilitare il collaudo di siluri presso il siluripedio di avanguardia dell’ isolotto di San Martino, esistente già dal 1917. In seguito alle aumentate esigenze belliche fu creato un nuovo silurificio al Fusaro (attuale ex Selenia), a metà strada tra Baia e l’isolotto di san Martino. I lavori iniziati nel 1939, terminarono nel 1943. Le tre strutture furono messe in collegamento attraverso due gallerie, una che collegava Baia e il Fusaro e l’altra il Fusaro con san Martino (P. Mancino, brevi cenni di storia del silurificio Baia-Fusaro e del siluripedio dell’isolotto di san Martino, agosto 2014, montediprocida.com).
La costruzione del nuovo silurificio ebbe un impatto sociale sul territorio flegreo molto importante. In un periodo di difficoltà economiche come quello bellico, molti giovani vi trovarono impiego, così come i locali tagliapietre furono addetti alla realizzazione delle gallerie.
Fu proprio uno dei figli di Livietta, il primogenito, ad essere impiegato nel cantiere del Fusaro. Il fondo gestito dalla famiglia Scotto passò, dunque, al giovane Enrico, ormai ventenne.
Il fondo fu dunque gestito da Zì Ricuccio negli anni difficili della guerra, aveva accolto nella sua casa la sorella Maria, rimasta vedova giovanissima con 5 figli da sfamare: Delia, Livia Genesia, Antonio e Cornelia. Zì Ricuccio fu generoso non solo con la sua famiglia ma anche con molti montesi ridotti in povertà dalla guerra.
Non c’è alcuna testimonianza scritta ma dai racconti si evince che in una fase non ben precisata del secondo conflitto mondiale (1939 – 1945), l’immobile al Cercone, il terrazzo della casa dei padroni, fu utilizzato dai tedeschi come torre di guardia, a controllo di salita Torregaveta. Il comune flegreo fu attenzionato dalle autorità fasciste per le idee libertarie e di democrazia che circolavano in paese, sostenute dal pioniere dell’autonomia comunale e primo sindaco Michele Coppola (Monte di Procida 1874 – 1956), il quale dopo aver partecipato alla prima guerra mondiale (1915 – 1918), nel 1920 fu rieletto sindaco e successivamente podestà fino al 1932. Accusato, dalle autorità provinciali fasciste, di antifascismo, fu sostituito dal dott. Umberto Tozzi, segretario forestiero del comune. Nel 1943 alla caduta del fascismo, fu nominato commissario prefettizio l’avvocato Agostino Matarese (Forio d’Ischia 1892 – 1972) proprio nel momento della rappresaglia fascista. Difese strenuamente il territorio montese e i suoi cittadini con astuzia e responsabilità, tanto da essere nominato sindaco nel 1944 dal Comitato di Liberazione nazionale (A. Gnolfo, Monte di procida antica misenum, pp. 229 – 244, Veltrand ed. 2003). Dopo la guerra si ritirò a vita privata nella proprietà del suocero, villa Cuccari, a Monte di Procida, conosciuta oggi come villa Matarese.
Alla morte della signora Scotto di Uccio, nel 1933 i figli ereditarono il fondo. Successivamente per l’assenza di eredi diretti, esso fu destinato nel 1962, all’ E.C.A. (Ente Comunale di Assistenza), nato nel 1937 dalla soppressione dell’istituzione ottocentesca delle congregazioni della carità. L’E.C.A ebbe lo scopo di assistere coloro che si trovavano in condizioni di particolari necessità. Si occupava inoltre di coordinare le varie attività assistenziali del comune. Curava gli interessi dei poveri assumendone la rappresentanza legale davanti alle autorità amministrative e giudiziarie, tutelava gli orfani, i minorenni abbandonati, i ciechi e i sordomuti indigenti, amministrava le istituzioni di beneficenza ad esso affidate, così come i lasciti e le donazioni.
L’ente fu soppresso nel 1975 e tutti i beni passarono ai comuni che usufruirono delle rendite annue e ne disponevano secondo le esigenze del territorio.
Nel 1986 Zì Ricuccio morì e gli successe alla gestione del fondo la nipote Cornelia, mentre suo figlio, Rosario, si occupò della gestione fiscale di una nota azienda napoletana.
Negli anni 2000 il comune di Monte di Procida decise di vendere la proprietà, che fu acquistata dagli eredi dell’ultima colona, legati affettivamente a quel luogo da almeno tre generazioni.
Un luogo non è importante per quello che è ma per ciò che esso rappresenta. È uno spazio-tempo in cui si costruisce una parte di sè. È un piccolo cosmo di affetti e relazioni in cui ci si riconosce, a cui ci si sente di appartenere e il cui ricordo, una volta andati via, rimarrà per sempre…
Dai racconti di Delia U’Monaco
Si ringrazia l’avv. Francesco Schiano di Cola per avermi fornito i documenti d’archivio che mi hanno permesso di ricostruire la storia della Famiglia Scotto (detta U’Monaco).
Si ringrazia Luisa Ceneri per la documentazione fotografica e mia zia Maria Chiocca (detta Marisa) per alcune testimonianze.
Infine ringrazio di cuore Delia Scotto d’Apollonia (detta U’Monaco) per aver condiviso il commosso e vivo ricordo della sua infanzia e adolescenza vissuta nella grande famigli Ru’ Monaco.
Maria Chiocca
Tutti i racconti di Una Finestra sul Mondo. A cura di Monica Carannante
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