Il giorno lunedì 17 maggio 1965, la maestra Iolanda Pecori, insegnante della classe quarta elementare femminile del plesso Montegrillo, situato in via Le Croci nel vicoletto di fronte all’attuale civico 24, assegnò ai suoi alunni un componimento in classe che proponeva di descrivere le impressioni riportate da un’escursione effettuata la settimana precedente.
Alcune scolare scrissero che durante la gita primaverile avevano potuto ammirare, fra i selvaggi dirupi del monte e la folta vegetazione, un grosso cannone e molti proiettili.
Nel correggere i compiti, la signora Pecori rimproverò alle ragazze di aver lavorato di eccessiva fantasia; ma esse insistettero che i proiettili ed il cannone c’erano veramente, era grande e lungo, e che loro si erano limitate ad annotare un’osservazione fatta dalla realtà.
La maestra Pecori, di fronte all’insistenza anche di altre alunne, rimase dapprima incredula, poi preoccupata del fatto che i ragazzi, come raccontato dalle sue allieve, andavano spesso a giocare con i proiettili ed il cannone, ne parlò subito al direttore della scuola che all’epoca dei fatti era il prof. Pietro Conte e costui ne informò prontamente i carabinieri della locale stazione di Monte di Procida.
Preoccupato ed incuriosito dall’accaduto il maresciallo Fera andò personalmente a parlare con le giovani studentesse che avevano raccontato del cannone presente a Montegrillo e si fece spiegare per bene la zona esatta in cui si trovavano i residuati bellici. Una volta accertato il luogo radunò i suoi uomini ed insieme andarono a perlustrare l’area.
Dopo ore di ricerche attraverso i selvaggi dirupi e la folta vegetazione della collina montese i militari dell’arma riuscirono a trovare il vecchio cannone abbandonato. Era sepolto quasi del tutto da erbe ed arbusti, ma si intravedeva benissimo la lunga canna di circa 4 metri con la bocca rivolta verso il mare.
Dopo il ritrovamento ufficiale del cannone, il corpulento maresciallo dei carabinieri Fera, calabrese di origini, iniziò ad interrogare le poche persone che vivevano da tempo a Montegrillo. Tra questi il colono Giuseppe Lubrano Lobianco detto Peppìno ‘u padròne.
Il maresciallo gli chiese: “Don Peppìno, ma voi che vivete e lavorate a Montegrillo da tantissimi anni, non eravate a conoscenza della presenza di un cannone giù alla scarpata?”
E Peppìno, uomo di altri tempi, di poche parole e soprattutto incapace del tutto di mentire, rispose pacatamente: “Maresciallo, ma certo che lo sapevamo, anzi, in verità i cannoni erano due“.
Ed il maresciallo stupito ed interessato chiese a don Peppìno: “E l’altro cannone dove sta? Noi non l’abbiamo trovato.”
Don Peppìno sempre con fermezza e scuotendo un po’ la testa rispose: “Maresciallo, il secondo cannone si trovava molto più a monte ed appena finita la guerra, con la fame e la miseria che c’era, noi lo tirammo su, lo facemmo a pezzi e lo vendemmo come ferro vecchio per comprare viveri e medicinali. Quello che avete visto voi si trova in un posto troppo ostile e non fummo capaci di tirarlo su, altrimenti non lo avreste ritrovato.”
Il maresciallo Fera, uomo severo ma di grande umanità, apprezzò molto la sincerità di don Peppino ‘u padròne e a quanto sembra non citò mai ufficialmente la presenza del secondo cannone.
Ma cosa ci faceva un cannone, anzi due, a Montegrillo?
Nel corso della seconda guerra mondiale e più precisamente dal 1942, in tutti i Campi Flegrei erano presenti forze della milizia controaerei a difesa delle incursione dei bombardieri inglesi e successivamente anche di quelli americani. In particolare a Monte di Procida erano schierate due batterie: la 521° e la 526° facenti capo al 74° gruppo di artiglieria pesante contro aerea che aveva il comando a Pozzuoli.
La 521° batteria era schierata proprio in località Montegrillo, mentre la 526° era schierata in località Gaveta, presso casa Lubrano. Queste due batterie, contrariamente a quanto risulta dai documenti ufficiali, erano dotate di un solo cannone da 75/46 modello 34 di manifattura della Ansaldo con sede anche a Pozzuoli.
Si tratta di armi con modeste prestazioni nell’impiego antiaerei, data soprattutto la scarsa gittata e la modesta precisione di tiro. I modelli più prestanti erano posizionati principalmente a difesa della città di Napoli dove erano presenti cannoni da 90/53 modello 39, i cosiddetti pezzi da 90.
Testimonianze dei montesi dell’epoca, compreso mio nonno, raccontavano e raccontano che per intimorire ancora di più gli inglesi posizionati sull’isola di Ischia, i miliziani della difesa contraerei italiana erano soliti trasportare i cannoni da un punto a l’altro della collina montese e fare fuoco da diversi punti del paese per ostentare una maggiore potenza di fuoco rispetto a quella realmente disponibile.
Nel corso dei mesi che vanno dalla fine di febbraio all’inizio di settembre 1943, diversi furono i bombardamenti che inglesi ed americani portarono a compimento su Napoli e sui Campi Flegrei dove ad essere bombardate furono soprattutto l’area industriale di Pozzuoli ed il silurificio di Baia.
La notte più terribile per i montesi e per tutti i flegrei fu quella tra il 23 ed il 24 agosto 1943, quando tutti i Campi Flegrei subirono un massiccio bombardamento ad opera di aerei inglesi e canadesi. Quelle terribili incursioni costarono la vita a 37 flegrei e 70 furono feriti.
Quanto ai cannoni “montesi“, successe che, all’indomani della proclamazione dell’armistizio dell’8 settembre 1943, i militari della contraerea italiana, per evitare che le armi ed i proiettili cadessero nelle mani dei tedeschi, che nel frattempo da alleati erano divenuti nemici, resero inutilizzabili i due cannoni e poi li fecero scivolare nel crepaccio di Montegrillo che affaccia sulla Miliscola.
Il primo cannone, come raccontato in precedenza, fu riportato su dai montesi e rivenduto per ferro vecchio. Il secondo non è mai stato recuperato, neanche dopo le segnalazioni ufficiali del maresciallo Fera del 1965.
Oggi, dopo 77 anni, è ancora lì sepolto dalla vegetazione e dai recenti cedimenti del costone tufaceo di Montegrillo a testimoniare quelle tristi pagine della nostra storia moderna.
…dedicato a mio nonno, Peppino ‘u padròne, che raccontava sempre con un amaro sorriso questo particolare evento della nostra storia.
–Pasquale Mancino