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Maria Chiocca, Procida e i suoi “misteri”, quattro secoli di tradizione

Un tripudio di colori, profumi e sapori annuncia la primavera, che mi riporta indietro nel tempo, alla mia infanzia.

Abitavo a Monte di Procida, località Casevecchie, in una palazzina bifamiliare, dove è nato e cresciuto mio padre e vivono tutt’ora i miei genitori. Intorno a noi case e giardini di agrumi e viti. Più di trent’anni fa c’erano meno abitazioni, il verde dei terrazzamenti si sfumava nel blu cobalto del mare e nell’azzurro del cielo.

Di fronte a me l’isola di Procida con le casette colorate, sembrava si potesse toccare tanto la vedevo vicina. Ed effettivamente Procida è vicinissima a Monte di Procida, la separa dalla terraferma il piccolo tratto di mare che si compie in 7 minuti di navigazione.

Benchè nel 1907 il Monte raggiunge l’autonomia politico-amministrativa da Procida, quell’antico legame resta indelebile nei cognomi, nel dialetto, negli atteggiamenti… Procida, per me è il luogo delle origini, dove ritrovare se stessi, la propria storia, dove recuperare il senso della propria identità culturale, l’appartenenza ad una comunità radicata nei suoi valori cristiani che ha dato vita ad una delle manifestazioni più significative del sentimento religioso flegreo.

Per incanto, il venerdì santo procidano, ci riporta nel passato, quando la devozione commossa dei nostri avi verso la passione di Cristo ne alimentava la fede. Oggi, in una società fortemente secolarizzata, la particolare Via Crucis isolana ha il merito di recuperare l’antica identità cristiana e di promuoverne i valori tacitamente espressi nelle rappresentazioni plastiche del corteo processionale.

La sacra rappresentazione della passione di Cristo diventa così, un evento che attira fedeli e turisti da ogni parte, per la sua carica emotiva è una manifestazione che travalica i confini dell’isola. Essa rappresenta il culmine dei riti pasquali procidani; pone le sue radici nel XVI secolo, quando per effetto della riforma cattolica attuata dal Concilio di Trento (1545 – 1563), la cura, la difesa e la diffusione del messaggio evangelico fu affidata agli ordini monastici: Teatini, Gesuiti, Domenicani ecc. che, sostenuti dalle confraternite laicali, ebbero il compito di educare alla fede il popolo di Dio, attraverso azioni culturali di tipo assistenzialistico e catechetico. In questo frangente storico-culturale, prese sempre più spazio “la pratica devozionale” che divenne il canale privilegiato per la trasmissione dei valori cristiani.

Procida ha una millenaria storia di fede. Il borgo antico, Terra Casata (dal XVI secolo sarà chiamata Terra Murata in seguito alla costruzione della seconda cinta muraria di difesa per le continue incursioni ottomane) nasce intorno all’abbazia di san Michele Arcangelo (XI secolo), punto di riferimento per l’originaria comunità procidana.

Proprio nell’abbazia di san Michele Arcangelo, hanno avuto sede due tra le più antiche confraternite laicali dell’isola, alle quali è legata la tradizionale processione dei misteri. La prima, in ordine temporale è l’arciconfraternita del SS. Sacramento, fondata dal Cardinale Innico D’Avalos (1536 – 1600), feudatario spagnolo di Procida. I confratelli appartenevano alle classi più evolute ed agiate della popolazione isolana, essi venivano chiamati I Bianchi, perchè indossavano il saio bianco con cappuccio. Oltre a dedicarsi al culto del SS. Sacramento, promossero la devozione della Croce.

La confraternita dell’Immacolata Concezione, fondata qualche anno dopo la prima, le cui regole di comportamento e finalità furono stabilite dai gesuiti con apposito statuto nel 1627, era formata da gente semplice, artigiani e contadini. Erano chiamati turchini perchè vestivano con una cappa turchese, la stessa che fu indossata dai militari cattolici durante la battaglia di Lepanto (1571) che vide lo scontro tra la lega cattolica e quella mussulmana. La vittoria della parte cattolica , ridimensionò l’espansione ottomana in occidente, garantendo alla stessa Procida un periodo di maggiore tranquillità. I turchini oltre a divulgare il culto mariano, promossero la devozione del Cristo morto e della passione di Cristo.

La sacra rappresentazione della passione di Cristo, probabilmente, fonda le sue radici nelle processioni dei misteri, che furono importate dalla Spagna a Napoli proprio durante il viceregno spagnolo, quando Procida divenne feudo della famiglia spagnola D’Avalos D’Aquino D’Aragona (1529).
Gli stessi Gesuiti ne promossero la devozione proprio attraverso la confraternita dei Turchini, che dal 1600 organizzano tale manifestazione.
Il giovedì santo con la messa in Coena Domini, iniziano i riti pasquali.

L’arciconfraternita dei Bianchi organizza la processione degli apostoli, che dopo il rito della lavanda dei piedi, 12 confratelli, con croce in spalla e corona di spine in testa, in un corteo suggestivo accompagnato da canti, visita gli altari della reposizione (sepolcri), allestiti nelle chiese dell’isola. Gli apostoli dopo un fugace pasto nell’antica chiesa di san Giacomo, ex sede della confraternita, distribuiscono ai fedeli il pane consacrato.

La processione dei misteri parte da Terra Murata, dove, durante la notte, sono state trasferite le sacre rappresentazioni.

La manifestazione inizia all’alba, con il trasferimento della statua del Cristo morto dalla chiesa di san Tommaso d’Acquino (sede della congrega dei Turchini) a Terra Murata. C’è una grande venerazione a Procida per il Cristo morto che rappresenta il dolore più intimo e personale dell’uomo. Viene portato a spalla dai confratelli più giovani, un vero e proprio rituale accompagnato dalla salmodia di sacerdoti e fedeli.

Giunti a Terra Murata, viene stabilito l’ordine del corteo secondo il tema religioso trattato, al richiamo del più anziano della confraternita. A dare inizio alla processione è la tromba che esegue una scala discendente di note seguita da tre colpi di grancassa (tamburo grande muto), che richiamano i suoni dei condannati a morte in epoca romana.

La sacra rappresentazione è accompagnata dal suggestivo corteo funebre composto dalle statue del Cristo morto di Carmine Lantriceni (XVIII secolo), dall’Addolorata (XIX secolo) e dal Pallìo; esso è l’epilogo della Passione: il pianto composto di Maria sul corpo martoriato del figlio, il suo dolore è lenito dalla presenza di angioletti, in carne ed ossa, bambini procidani di circa due anni, che vestono in nero e oro, gli stessi colori indossati dalla madre dolorosa.

Il momento è altamente suggestivo, la carica emozionale degli astanti raggiunge il culmine fino a chiudersi in un sacro silenzio di contemplazione. Un silenzio interrotto dal tuonante rimbombo della grancassa e dallo struggente suono della tromba che urla il dolore di una umanità infedele e senza speranza; è lo scoramento del tragico riconoscimento che fa dire al centurione sul Golgota: …Davvero costui era il figlio di Dio! (Mt 27, 54)

La processione dei misteri termina a Marina Grande dove il crocifisso ligneo di santa Maria della Pietà, posto lì da circa 200 anni, con lo sguardo di Cristo rivolto ad oriente è segno di perdono e riconciliazione, speranza di sicura resurrezione per tutto il mondo.

Maria Chiocca
https://www.facebook.com/maria.chiocca.71

Note:
Le informazioni tecniche e storiche sono tratte da alcuni articoli di storici procidani Giacomo Retaggio e Sergio Zazzera, pubblicati qualche anno fa su Il Procidano.it

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