La microrecensione di Astolfosullaluna – Febbraio
Case di scrittori, scrittori a casa
Su e giù per l’Italia nelle case dei letterati italiani
Il libro di Mauro Novelli
Dura fatica insegnare Letteratura, quella italiana in particolare, ricca certo di nomi ed opere che hanno bucato i secoli, ma non del tutto capace di uscire, come diceva Carlo Salinari, da quell’odore di lucerna aristocratica che ne segnò l’origine e gli sviluppi, nonostante l’idea popolare che ne ebbe l’indiscusso rappresentante più alto ed importante, quel Dante che nessun’altra Letteratura può vantare. Il libro di cui Astolfo qualcosa qui dice, racconta splendidamente un “viaggio nelle case dei grandi scrittori italiani”, col fine di raccontare gli stessi alla luce dei luoghi che li hanno visti vivi. Case diverse, ma in qualche modo anche specchi di chi tempo fa le ha abitate, vi ha immaginato trame e versi.
Vi piacerebbe vivere sulle rive del lago di Garda, in una dimora dalle molte stanze foderate di legno, sempre calde e dagli ingressi che costringono chi vi entra ad abbassarsi? Stanze, corridoi, finestre chiuse, anche lo Studio Blu sempre chiuso a chiave, tendaggi pesanti che chiudono alla luce, ambienti popolati da mille oggetti raffinati, quadri dalle immagini sacre e profane, “soprammobili” di dubbio gusto, chincaglierie, orpelli marmorei e metallici, statue e statuette tra stile liberty e classicismo decadente, tra odori marci di fiori uccisi da quel caldo? E, fuori, il giardino di dieci ettari coi gruppi marmorei e bronzei e la nave Puglia, da dove lo sguardo del proprietario si allungava fulminante sul bacino lacustre, dopo le fatiche dell’alcova della sua “sessualità compulsiva”, la polvere bianca inalata e le lunghe meditazioni sulla morte? Era solo una pallida idea della villa abitata da D’annunzio dal 1921, dopo il fallimento dell’avventura fiumana e l’uscita dalla politica attiva col trionfo dell’amico-rivale Mussolini. A molti, forse, non piacerebbe la casa di Gardone Riviera, oggi che pure lo sfarzo e il kitsch anche nell’abitare sembrano di nuovo invadere le vite e i pensieri di tanti.
Oppure: piacerebbe oggi la cascina di S. Sebastiano poco fuori S. Stefano Belbo, in Piemonte tra le colline delle Langhe, luogo di vita e di memorie di Cesare Pavese, lo scrittore che, più di altri, sentì inconciliabili mito e rivoluzione, appena cacciato il fascismo, e si uccise? O la casa di un altro langarolo, eterno fumatore, creatore del partigiano Johnny e dell’epopea della città di Alba, nei più bei libri sulla Resistenza, Beppe Fenoglio? Altri, nel raccoglimento sulla vita che scorre, apprezzerebbero la villa del Meleto, poco fuori Agliè, verso Ivrea, casa di Gozzano, poeta sconsolato morto di tisi ancora assai giovane mentre infuriava la guerra? E, saltando dalla tristezza autoironica del poeta della signorina Felicita al sanguigno Guareschi in Romagna, quanti si fermerebbero nella Bassa Padana di nebbie fitte sui campi e l’umido nelle ossa, a sentire l’eco delle storie di Peppone e don Camillo, piene di zolfo e padreterni? Democristiano, certo, ma finito in prigione per diffamazione a De Gasperi nel ’54… E, ancora, la casa povera del povero Salgàri, amato, udite udite, anche dal leggendario Che Guevara che diceva di aver letto ben 62 (!) suoi romanzi, suicidatosi per miseria nel 1911 col rito dei guerrieri giapponesi, il seppuku, lui che non aveva mai viaggiato ma inventato Sandokan e le foreste malesi, nel più bell’incanto dell’Oriente colonizzato.
E quella monumentale di Alfieri, ad Asti, o di Manzoni, nel cuore di Milano, o di Alda Merini, sempre a Milano, sul Naviglio Grande, o del fondatore del Futurismo, Marinetti, finito poi Accademico d’Italia e megafono del regime, in realtà un elegante hotel fin de siècle di Bellagio, al centro del lago di Como? Altri, credo, gradirebbero dimore più moderne, novecentesche, come quella a Casarsa in Friuli, di Pasolini, un edificio color salmone sulla statale Pontebbana, da cui il poeta-regista fuggì nel gennaio del 1950 diretto a Roma, inseguito dall’incomprensione e dal perbenismo di conservatori e progressisti del tempo. O quella di Pirandello a Roma, sulla Nomentana, non distante da villa Torlonia, dimora del duce e famiglia, allora fuori mano, quasi campestre; o quella sul Lungotevere, un bell’attico dagli ambienti luminosi, di Alberto Moravia, al cui citofono negli “anni di piombo” bussarono delinquenti neofascisti per comunicargli la condanna a morte che gli avevano comminato, e la cameriera rispose serafica con un memorabile : “Spiacente, il signore non è in casa”! O il discutibile capolavoro incastonato nella roccia di Capri di Curzio Malaparte, un parallelepipedo disegnato dall’architetto Libera che Bruce Chatwin definì efficacemente “una nave omerica finita a secco…”; oppure la massiccia residenza sarda, a Nuoro, di Grazia Deledda, scrittrice “fosca e potente”, come precisa, ammirato, l’autore del libro.
E, ancora, la casa di Albino Pierro, grande poeta dialettale di Tursi in Basilicata, o di Carlo Levi ad Aliano, dove lo scrittore-pittore torinese fu mandato al confino alla fine degli anni ’30 dal fascismo; o di Quasimodo a Modica, in Sicilia, dove il poeta Nobel era nato nel 1901; o di Verga, scapolo errante nell’Italia post unitaria, ma poi tornato alla casa di Catania dove aveva trascorso l’infanzia e vi sarebbe morto nel ’22.
In questo viaggio sentimentale, Mauro Novelli, docente alla Statale di Milano di Letteratura e Cultura nell’Italia contemporanea, percorre in lungo e in largo la penisola alla ricerca dei luoghi che hanno segnato l’essere Italiani, riconoscendosi nelle pagine di chi la Letteratura l’ha fatta, contribuendo al grande patrimonio comune della civiltà cui apparteniamo, a volte orgogliosi, spesso no, ma sempre consapevoli di farne in qualche misura anche noi parte. Il suo sguardo di esperto coglie la quotidianità nelle stanze che attraversa, ne sente la vita, la bellezza e le contraddizioni, ci restituisce ritratti di autrici ed autori che i libri talvolta non danno… specie quelli non belli. Novelli coglie bene spessore umano, felicità o infelicità di ogni autore, tra portoni, scale, camere povere o ricche, biblioteche magari ora impolverate, nell’odierno tramonto della lettura. Da Petrarca nel suo orto, al Foscolo quasi ignoto a Zante, a Goldoni rivoluzionario del teatro morto poverissimo, a Montale inquilino milanese non lontano da Manzoni, al vivace Comisso e a Parise, abitatori della pianura veneto-trevigiana, al Tasso folle e geniale, a Casanova e Pellico, diversissimi ma accomunati dalla terribile prigionia tra i secoli in conflitto – ‘700 e ‘800-, a Pascoli e Carducci, spiriti opposti ma vicini, tra Romagna tragica, per il primo, e Toscana ferrigna e malinconica, alle necessità economiche del più grande poeta del Rinascimento, Ariosto, alla famosa triade della Letteratura italiana, Dante, il già citato Petrarca, Boccaccio, a Machiavelli, malinconoso stratega della politica costretto alla pura teoria, fino alla poetessa rinascimentale lucana Isabella di Morra, morta tragicamente e ancora sconosciuta ai più, scoperta solo all’alba del ‘900 dallo studioso Angelo De Gubernatis.
Tutti entrano in queste belle e scorrevoli pagine, chi meno, chi tanto, chi in dimensione accresciuta rispetto alle storie letterarie in voga nelle scuole. Nulla di strano, o di nuovo, ma Astolfo trova geniale questo approccio alle patrie Lettere. Gli sembra la via meno difficile per approdare a conoscenze che sembrano limitate, settoriali, destinate a sole anime belle, ma non è così. Il tessuto umano, sociale, esistenziale di ogni autore è definito e disvelato in termini oggi necessari per avvicinarsi al nostro patrimonio culturale aggirando i tanti “pregiudizi anti-conoscenza” in voga al tempo di Internet. Ne è un esempio il capitolo dedicato alla dimora leopardiana a Recanati, La carezza di una sguardo, alle pagine 126-134, dove Novelli ricostruisce sobriamente essenza ed esistenza, viene da dire, del poeta più noto e forse amato della nostra Storia, ma in realtà conosciuto per sprazzi scolastici deformati e…luoghi comuni. La scena in cui il ragazzo Leopardi vive è descritta rapidamente, come la presenza di Silva nella sua “miseria dignitosa”, suo amore auto promesso e presto tramontato, insieme alla vertigine che gli spazi descritti comunicano al critico-reporter. Il racconto piano e diretto osserva la vita e le disavventure dell’adolescente in famiglia, i silenzi, le esclusioni, le freddezze di un modello educativo ancien régime consono al clima post Waterloo, ma del tutto morto agli slanci affettivi cui inutilmente tendono i figli di Monaldo ed Adelaide Antici. E, da qui, la poesia di Giacomo che travolge l’erudizione, poi la sua volontà di fuga da luoghi che ha potuto solo accarezzare con lo sguardo nello scorrere di giorni ed anni di desideri cancellati ed echi del Mondo, lì arrivati solo per caso. Poi l’opera, rapidamente riportata, in contrappunto all’esistenza mancata del poeta, in un progetto, si diceva prima, che favorisce l’avvicinamento alla figura immensa dell’autore dell’Infinito strappandolo al monumento ch’è diventato. Seduto su una panchina, nella profondissima quiete della piazza ormai deserta e buia, sento la carezza di una sguardo che non mi vede, commenta Novelli. Anche Astolfo si siede sulla panchina, chiedendosi il perché testi come questo non riescano a sostituire qualche volta i romanzi, almeno quelli scadenti, portando lettrici e lettori nel cuore di quello che ci parla anche se non sentiamo più nulla
M. Novelli, La finestra di Leopardi, Feltrinelli 2018
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