Un libro che esce nei lontani anni ’60 in America, negli anni delle sicurezze prima della sconfitta americana in Vietnam; che passa più o meno inosservato, con sole 2 mila copie vendute. Ripreso dopo il Duemila da una piccola casa editrice e poi ripubblicato nel 2006 da un’importante Rivista newyorkese, ottiene un enorme successo e traduzioni fuori dagli Stati Uniti, tra le quali quella italiana dell’Editore Fazi. S’intitola Stoner, il cognome del protagonista.
Ed è di questo romanzo che Astolfo vuole dire qualche parola. Un romanzo? Diranno le due lettrici e i due lettori della rubrica. Sì, un romanzo, uno dei pochi veri, grandi racconti della vita, degno di stare vicino non solo a quelli di altri Americani del ‘900, ma persino un poco più avanti. Secco e chiaro assai più delle prose apprezzate di Truman Capote, il migliore di tutti fino a qui, di Carson McCullers e dello stralodato Norman Mailer, pensa Astolfo. Certo altra cosa rispetto a Philip Roth appena scomparso, ebreo laico, profondissimo indagatore dei modi di stare al mondo nelle pieghe delle comuni ed insolubili contraddizioni della società appiattita dai consumi, corpi ed anime compresi! Ma degno di essere letto e ricordato come pochi altri.
Ne fu autore uno sconosciuto docente universitario di lingua e letteratura inglese a Denver in Colorado, che dopo il fiasco di Stoner pubblicò altro senza clamori: John Edward Williams. Scrittore confinato dai critici nell’insulsa categoria degli accademici insoddisfatti che si sono dati incautamente al romanzo. Invece, Stoner è quel che si è detto: il racconto di una vita piatta e anonima che … ha la stoffa del capolavoro. Naturalmente, scoperto tardi, a 10 anni dalla morte dell’autore e con le tipiche modalità dell’industria culturale, e cioè la frenesia di avere ritrovato quel che nessuno aveva capito per tempo, il battage pubblicitario dell’occasione e…nessuna scusante, nessun colpevole dell’errore di quarant’anni prima! Ricorda un po’ un’altra storia italiana degli anni’50, quella del Gattopardo e Tomasi di Lampedusa, scambiato per autore dell’800… fuori tempo massimo! Ma non confondiamo i (pochi) lettori di questa rubrica…
Dunque: William Stoner è figlio di contadini, va in città per studiare Agraria, secondo le necessità familiari. Invece, si innamora della Letteratura, che allora era studio d’élite, tanto più nell’America ruspante ancora piena dei grandi narratori dei ’30 ’40, Steinbeck, Dos Passos, Lewis, Faulkner, Hemingway subito dopo, tanti altri. E decide di cambiare Facoltà, fatica a stare al passo, poi è travolto dalla bellezza del sonetto 73 di Shakespeare che l’arcigno ma bonario Prof Archie Sloane legge, recita pietosamente davanti al suo, e degli altri, silenzio:
In me tu vedi quel periodo dell’anno/quando nessuna o poche foglie gialle ancor resistono/ […]
Niente, Stoner rimane fulminato ma…muto: farfuglia, non sa, resta un sasso sulla sedia che a stento lo contiene! Inizia, però, la sua esistenza insignificante di studente, docente, marito sfortunatissimo di una donna che non conosce l’amore, padre di una ragazza che non può liberare dalle nevrosi materne e, centro del dramma, vittima di una vera e propria faida accademica che lo priverà dell’unica ventata di libertà, l’amore vero per Katherine, dottoranda del suo corso, amore denunciato come scandalo dal falso puritanesimo di quell’America prima di Dylan e della contestazione.
Solo il provincialismo comune qui da noi e oltre Atlantico ha confinato il libro di J.E.Williams tra i prodotti minori, al più di consumo rapido, di una letteratura che fino agli anni a noi più vicini è stata vigile ed attenta nella denuncia di storture interne e arroganze estere della democrazia americana. Ian McEvan, autore riconosciuto tra i grandi, in un’intervista a Repubblica del 2013 parlava del romanzo come quello in cui
” [Si tocca] la verità umana come succede nella grande letteratura. [In cui è presente] un tipo di prosa che non vuole mostrarsi… [una] scrittura simile a una superficie di vetro, [con cui] riesci a vedere immediatamente le cose di cui parla. E credo che questo sia entusiasmante di per sé. Ha una tale chiarezza, è una scrittura molto limpida. È straordinario ed è un avvertimento per tutti noi scrittori: potresti essere anche molto conosciuto in vita e poi, qualche anno dopo la tua morte, essere dimenticato”.
Chiaro e coinvolgente fino alla fine: con Stoner che sente e vede la tragedia che lo avvolge, impotente in mezzo al pratico disinteresse della moglie Edith, senza più appigli o slanci che lo salvino dall’incubo che se lo porta via. Nella postfazione al libro, il critico Peter Cameron, artefice della “riscoperta”, scrive limpide parole per dire come da una storia sostanzialmente banale l’autore abbia tratto un capolavoro:
“ Dio si nasconde nei dettagli e in questo libro i dettagli ci sono tutti: la narrazione volteggia sopra la vita di Stoner e cattura ogni volta i momenti di una realtà complessa con limpida durezza”
E Astolfo suggerisce a chi legge e vuole una storia non da rotocalco di agosto, di avvicinarsi a questo romanzo americano per coglierne la profonda leggerezza, capire perché il protagonista, un attimo prima di andarsene osservi i passi leggeri sull’erba degli studenti del campus… passi che a lui sembrano non lasciare tracce.
J.E.Williams, Stoner, Fazi Editore 2012
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