Astolfo se ne stava a baloccarsi tra libri, film e racconti che, in vista del Natale, mettono in relazione gioie e dolori, riflessioni e scoppi di…risa non blasfeme con la festa cristiana per eccellenza, la nascita del dio nel mondo e lo stupore umano davanti all’evento escatologico… Poi si è fermato sulla più bella favola letteraria sul tema, ha messo da parte i pensieri più inattuali, quali, ad es., se ci sia bisogno di un Dio per tirarci fuori dall’oscuro in cui cadiamo, o, anche, se il sentire religioso sia tutto umano o venga da qualcosa di indipendente oltre di noi… Domande destinate a rimanere tali nel fragore del tempo di consumi e scialacquamenti di ogni risorsa … E la favola, non so se mi sbaglio, è il vecchio, caro, mille volte visto a cinema e in Tv, ultimamente in cartone animato, Canto di Natale del grande Carlo Dickens.
Scrittore di enorme importanza, testimone diretto delle trasformazioni sociali, dei guasti umani e naturali, innescati dalle frenetiche accelerazioni della ormai Seconda Rivoluzione industriale nell’Inghilterra dal 1840 in poi. Il racconto, breve e denso, ha al centro molti dei temi discussi dai pochi illuminati di quell’inizio di epoca vittoriana: il pauperismo e la giustizia sociale, la necessità di attutire le peggiori conseguenze dello spietato sistema produttivo che calcolava gli uomini come numero e non come persone – l’usa e getta così stranamente risorgente nel nostro tempo post-industriale!-, infine la lezione dell’autore che intravede la soluzione ai mali raccontati nella bontà del cuore e nell’apertura del ricco all’incredibile atmosfera che l’evento Natale mette in atto. Eppure… il Marx non più giovane, non ancora vecchio, scriverà anni dopo sul New York Tribune che Dickens ha colto la violenza della realtà sociale del Paese avanguardia dello sviluppo economico e ne ha tracciato il profilo più nero, implicitamente riconoscendo il bisogno di una rivoluzione… magari solo del cuore, con gli abbracci, i perdoni tra sfruttati e sfruttatori, e la carità che spunta per l’occasione. Sono passati sei anni dal Manifesto e proprio dal capitalismo più feroce qualcuno denuncia che le cose non possono proseguire così come sono nate, che dev’esserci una via d’uscita alle brutture che neppure la nuova Poor Law del 1834 ha eliminato. Questo giudizio del filosofo economista che si accinge a tracciare di lì a poco i concetti di una critica assai più “scientifica” dei mali del tempo con le pagine di Per la critica dell’economia politica, ben oltre il buonismo dickensiano, sono utilissime per capire bene la centralità della storia di Ebenezer Scrooge, il protagonista del Canto. Opera dal successo immediato, evidentemente in linea col sentire diffuso tra i ceti colti orientati già allora alle aperture della charity, della filantropia apolitica, non poco ipocrita e confusionaria, ma vera, sentimentalmente punta avanzata contro il lavoro dei bambini, le brutalità del clima effervescente e violento da cui emergevano i padroni del vapore… La favola del ricco avaro e non avido – Dickens avrà letto il Machiavelli del Principe, che faceva questa distinzione -, in astioso isolamento dal mondo di miserabili che lo circonda e trova motivo per essere buono, generoso persino nel dividere il pochissimo con chi ha niente, è la più formidabile metafora/allegoria del passaggio dal necessario a sopravvivere al superfluo che crea potere. Scrooge è infelice di suo, difende il suo tesoro da ogni pericoloso sentimento, ha vissuto come una liberazione la scelta della giovanile fidanzata di liberarlo dall’impegno di un matrimonio, maltratta non solo il dipendente Cratchit ma ignora la gentilezza dell’unico nipote Fred, il figlio della defunta sorella Fanny che da bambini lo educava con amore. E l’irruzione notturna del fantasma di Marley, il suo socio morto da alcuni anni, che gli introduce in casa altri tre terribili fantasmi del Natale, il passato, l’attuale e quello futuro, dell’anno dopo, pone il poveraccio di fronte al bivio mai immaginato. Rintanarsi nella nicchia dorata dell’egoismo gotico e violento del disprezzo della festa, del culto dell’accumulo fine a se stesso in cui già vive dall’infanzia… o aprirsi agli altri, vederne il desiderio di vivere illudendosi di essere felici nella confortante socialità che gioiosamente il Natale regala anche ai poveri… E la scelta sarà obbligata, benché dolorosa, ma liberatoria. Troppo profonda la solitudine prospettata e vicina, restando ricco e odiato; più umana, lieve e gratificante divenire come i poveri pur restando ricco, donando per la prima volta a piene mani, con stupore e meraviglia di chi non l’avrebbe mai previsto… E’, con parole non di e da Astolfo, “la favola bella che ieri [ci] illuse, che oggi [vi] illude”… Lo vedete oggi, nei turbini furiosi della Finanza-Pescecane, uno Scrooge ravveduto e…pentito?
C.Dickens, Canto di Natale, Newton Compton 2017
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