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L’alba teatrale di Mimmo Borrelli a Torregaveta

BorrelliCaro Roberto, avrei voluto scrivere meglio di te, meglio. Meritavi molto, non so quanto hai avuto da una vita tutta dedicata al teatro. Penso che, in fondo, non te ne sia importato molto. Hai fatto il tuo dovere teatrale, la tua missione teatrale l’hai compiuta con umiltà e senza cedimenti. Questo conta veramente, assai più degli applausi reali o metaforici che diventano sempre più fiochi e, poi, non si sentono più”.

Giorgio Strehler

Domenica, 20 Settembre 2015 00:00

L’alba teatrale di Mimmo Borrelli

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L’alba di allora
È il 2007, Mimmo Borrelli ha vent’otto anni e da due il suo nome viene associato davvero al teatro italiano. N’zularchia – con la regia di Carlo Cerciello, il corpo di Peppino Mazzotta – è stato in scena, ha ricevuto acclamazioni e ottenuto consensi mentre la drammaturgia, quest’ibrido di prosa e versi dalla metrica contata con le dita, ha vinto il Premio Riccione: “Nel buio ossessivamente martoriato da un’affettata oscurità squarciata dai lampi di una casa, invasata da rumori e da una muffa che penetra nei corpi, N’zularchia svolge una sfida al labirinto, ovvero a un luogo d’origine sfigurato e illeggibile, un gioco di orientamento e disorientamento nell’ansia topografica della mappa per rintracciare il colpevole”. Inizia così la motivazione del Premio, senza il quale – parola di Borrelli – “io non sarei davvero diventato ciò che sono”.

Franco Quadri saluta il testo come un capolavoro e, spinto da un pensiero che guarda lontano, immagina già lo spettacolo che ne sarebbe derivato; prime firme d’allora definiscono la messinscena conseguente “una pièce straordinaria” (Magda Poli), “il cui testo” (Gianfranco Capitta) “fruga furiosamente nelle pieghe della lingua e della coscienza” per renderne (Franco De Ciuceis) “la contaminazione ed estenuazione a seguito di una tragica e devastante esperienza”; qualcuno tra il pubblico piange, quando iniziano gli applausi; molti si chiedono chi sia quest’autore che viene da Torregaveta – insieme di case bianche e basse, strade strette ed inclinate e grotte di tufo che s’ammollano nel mare – cos’abbia scritto prima e chi siano i suoi maestri: “Se ai suoi esordi ha un immaginario verbale così forte,” − scrive Renato Palazzi − “dove potrà arrivare maturando?”.
Intanto nel retro silente di ‘Nzularchia, altrove cioè dal rumore prodotto dagli elogi e dalle strette di mano che si affrettano, si accalcano e si aggiungono, Borrelli cova una mancanza, come un’insoddisfazione forse neanche chiara o dicibile a se stesso in questi mesi e in questi anni di prima affermazione teatrale. Qualcosa di fondamentale non c’è ancora, qualcosa d’urgente ancora non esiste, qualcosa di necessario ancora non ha vita. Mimmo Borrelli non ha ancora pronunciato una sua lingua, non ha ancora generato il proprio lessico, non ha sgravato ancora la sua parola. L’“Je songhe tutto chello ca nun songhe” con cui inizia il prologo di N’zularchia non è sufficiente; questa scrittura che tutti celebrano come un dono nuovo fatto al teatro è straniera a colui che l’ha prodotta; l’informe poema notturno – nato nelle lunghe serate del dopo spettacolo attoriale, quando i muscoli sono stanchi, la testa rimbomba e la bocca è secca delle battute che ha dovuto recitare poco prima – non è che il balbettio incerto di una parlata che non è stata parlata ancora.
“Ho lavorato al testo di ‘A Sciaveca per dieci mesi,” – mi disse Borrelli in un lungo colloquio per un’intervista – “e ho elaborato, in quei dieci mesi, una serie di pratiche compositive che poi ho riutilizzato successivamente. ‘A Sciaveca è il momento nel quale ho trovato il mio verso e nel quale, la scrittura, è diventata la mia scrittura”; “’A Sciaveca nasce anche dalla volontà e dal bisogno di parlare una lingua che potessi parlare solo io in scena”; “Con ‘A Sciaveca è nato il mio teatro”.
Di quel tempo che fu c’è un’alba, di un giorno senza data, di cui forse vale la pena raccontare. “Come parla il mare?” è la domanda che Borrelli si pone continuamente, nel mentre compone ‘A Sciaveca; ha un verbo, produce un dialetto, qual è la sua grammatica? Che tono hanno i suoi commenti? Cambia il suo frasario col mutare del vento e dell’umore? Come comunica ciò che vuole comunicare? “Andai sulla spiaggia di Torregaveta a sentirne i suoni, i rumori, la voce e il ritorno della voce prodotto dal ritorno delle onde e mi accorsi che il mare parlava e che il suo parlare iniziava con una parola precisa, la stessa con cui gli anziani flegrei cominciano le loro storie di bugie, il racconto dei loro ricordi, la narrazione delle loro memorie: ‘N’zomma”.
N’zomma… N’zomma… N’zomma…
“… N’zomma…
La santa gelopesca ubicazione,
‘a sciaveca… di quest’orrida mattanza,
ll’urtemo sciato asciutto ‘i nu purmone
serunto r’ ‘u signore cu ‘ a pacienza,

‘mbuttunat ‘i ‘rraggia e spavo ‘i malazione,
nun puteva ca nnun’essere ‘a parvenza
‘i nu paisiello ‘i mare, ca nu ponte ‘mpennenza,
sfriggiato cu ‘a semmenza ‘nfaccia ‘u munno pe’ crianza.

Torrecaveta s’annomma chistu ‘mbruoglio,
‘int ‘u lenzulo, senza ‘i nu film ‘a luce,
‘i Ddio ca ce vattezzaje senz’uoglio,
ma c’u ‘u sanghe ‘i chi lle sonnammuorto doce!”


Insomma Torregaveta; insomma la rete da strascico, l’orrida mattanza, lo spago della cattiveria; insomma lo sfregio, lo sperma, la creanza; insomma Cinqueseccie, Angela, Pacchione, Settecape, Core ‘i Zefera, Ven ‘i fuoco e Ciro Capalonga, Bunaccia, Sasà Marunniello, Tonino ‘u bbarbone, Lebbeccio, Peppe Scummetiello; insomma ‘i Vaise, ‘i Cappellise, ‘i Muntise, ‘i Vaculise, “Cristo-foro Colombo/cu’ tre ccaravelle” e “’u diluvio Universale”; insomma “Ggiesùsucriste incoronato ‘i Ddie”, “Giacobbe e Abramo”, “Eva cu Adamo”, “Pietro e Paolo”, Mosè e “Bbu-bbà”; insomma “N’zomma”… “N’zomma”… “N’zomma ‘N coppe ‘u Monte”, “N’zomma Sta renzecata ‘i costa schifata r’u Pataterno”, “N’zomma Chi ve conta stu cunto vattiggie, d’ingurdiggia, bramiggia e cupidiggia”, “N’zomma ‘A terza Alleanza dell’apostasia” nacque così, a riva di mare, “la mia teatralità” com’ebbe a dirmi Borrelli.

L’alba di oggi
Se questa mattina mi trovo, dunque, alla marina di Torregaveta, quando il sole ancora non è apparso perché manca un quarto alle sei ed è la notte che insiste ancora nel rendere tutto un po’ più scuro – il mare e l’aria, l’orizzonte, gli scogli, i bar e i ristoranti, la stazione della Cumana, l’asfalto della strada, le auto parcheggiate, la sabbia, le sagome dei pescatori rivolti verso l’acqua, il volto degli altri spettatori – non è perché mi attendo la visione di una partitura completa, lineare, composta e chiusa, senza incertezze, mancamenti, momenti d’errore ed intromissioni umane ed ambientali impreviste o imprevedibili; attendo invece il momento esatto nel quale il giorno s’annuncia appena e la luce permette la visione, pallida e infreddolita, di una o più sagome carnali; attendo la realizzazione di una presenza, il verbo che diventa una recita momentanea e frammentaria, attendo la resa viva e fragile di una testualità a brandelli, che fa seguire scena a scena dando solo scampoli di due opere (‘A Sciaveca, Sepsa) che qui – proprio qui – furono pensate, ascoltate dal suo autore prima che da lui stesso messe in pagina, che qui nacquero come suono, come storie ancora prive di forma teatrale e di finzione, come memorie appartenute al mare e che il mare ha condiviso dicendo e ridicendo “N’zomma”. Così non è importante – anche se è significativa – l’evidente bravura degli interpreti, giacché questi stessi interpreti mi sembrano non i personaggi delle opere cui pure alludono e appartengono ma solo il loro nocciolo primigenio, il loro nucleo fondativo, una loro immagine dallo spessore reale e passeggero; così non è importante che una musica di scena s’interrompa anche se non dovrebbe interrompersi, che un cane randagio s’introduca ed abiti lo spazio abitato dagli attori, che un vocio d’intorno s’aggiunga al vociare interno e recitato, perché quello che davvero conta e che rende interessante Memorie e versi dei campi Flegrei è il ricontatto provocato tra un luogo e le storie che appartengono a questo luogo e che – questo luogo – ha suggerito suggerendo nel contempo anche il modo, il ritmo, la forma e l’andamento nel quale andavano dette, realizzate, inteatrate e spinte in palcoscenico.
Se è su questa spiaggia che Borrelli ha compreso la lingua del mare e se è la lingua del mare che ha generato ‘A Sciaveca allora è su questa spiaggia che è nato davvero il verbo di Borrelli; è da questa spiaggia – tra le orme lasciate dai gabbiani, i gusci dei mitili, gli avanzi delle serate dei giovani del posto, qualche sdraio fuori stagione, le reti divisorie – che viene il teatro di Borrelli; è a questa spiaggia che appartengono, come per filiazione successiva, Sepsa (2009), che congiunge gli estremi geografici della Cumana attraverso le morti di Petru Birladeanu e di Cristina e Violetta (le due ragazze rom annegate a Torregaveta) e La madre (2010), Malacrescita (2011), Napucalisse (2012), Cante e schiante (2014), Opera pezzentella (2014).

“Binario muorto! Binario stuorte!
‘U treno r’ ‘i muorte ‘i chi ve son’a mmuorte,
accorda cunfuorto cu nu cuncierte:
‘na sporta ‘i zingare ca sonan’allerte.
Petrù te veste je per il tuo funerale
‘ccussì luvamme ‘a frasca ‘nnanze a Carnevale…
È sacrileggio a tucca’ nu muorte,
ma è cchiù sacrileggio a farle nu tuorte.
Muorte sunate, sparate a nu muorte
sparate a sta salma senz’ ‘a casciaforte,
n’ata vota ancora si tenite ‘u curaggie,
sputatele ‘ncuolle cu tutt’ ‘a rraggie!
Mocc’a chit’a mmuorte, Petrù ‘nte movere…
vuo’ vede’ ca pe sbaglio ‘nt’avesseno accogliere?”

Per questo il buio naturale che precede l’inizio della performance mi porta al buio del 2007 e alla condizione ancora oscura del narrante privo e dunque in cerca della propria narrazione; per questo il rollio ondoso di questa mattina mi rimanda idealmente al rollio insistente e identico che a Borrelli disse allora il proprio “N’zomma”; per questo l’albeggiare che avviene lento mi sembra quasi la metafora tutta ambientale della parola che si forma in progressione e che in progressione forma frasi, versi, canti permettendo l’esistenza di voci, gesti, espressioni affidate a/denotate poi dal corpo attoriale. È per questo che distolgo talvolta lo sguardo dagli interpreti e cerco Borrelli, che non a caso si muove kantorianamente in questa sua creazione mattutina (indica o traccia il confine tra spazio/palco e spazio/platea; governa le musiche; riassume una trama; supporta vocalmente la ritmicità di un momento teatrale; accompagna gli spettatori da un luogo ad un luogo del molo e della spiaggia), come fosse regista, spettatore e scrutatore postumo presente dei propri stessi fantasmi del passato, rievocati nel luogo in cui più chiaramente gli apparvero in quei dieci mesi in cui ‘A Sciaveca divenne ‘A Sciaveca.
Noto naturalmente l’accenno anche di altro in quest’offerta teatrale e itinerante (la circolarità ritualmente epifanica tracciata dal movimento corporeo di Maria, ripresa dal tratto disegnato in spiaggia dal bastone del suo amante; il simbolismo ripetuto dei fiori mortuari; il consueto impasto lessicale, arricchito dalle sublingua dell’italo-rumeno; la sincronia coreografica che muove contemporaneamente più attori in più luoghi; la possessione interpretativa che agita chi si fa portatore testuale; la funzione assunta dal suono, che fa da fonte/premessa evocativa necessaria; certa gestualità minima d’accompagnamento – esempio: l’indice della mano destra di Lucienne Perreca, che ad un punto mi sembra usato per accompagnare la dicitura versificata del lessico; la micromimica emozionata di Paolo Fabozzo, che non riesce a tenere le lacrime sul finale) ma di nuovo e alla fine lo sguardo torna a quest’autore che si ritrova – a otto anni di distanza – teatralmente impegnato qui dove comprese come diventare l’autore che oggi è diventato.
“Il miglior testo che ho scritto, per me, è ‘A Sciaveca.” − ricordo ancora − “‘A Sciaveca è dirompente ed è il testo che detta un cambio decisivo nel mio modo di scrivere”. L’alba di allora (metaforica e reale) nell’alba di oggi: questo è stato, per me, Memorie e versi dei campi Flegrei.

NB. Le fotografie che si riferiscono a Memoria e versi dei Campi Flegrei, poste a corredo dell’articolo, sono di Gennaro Cimmino.

Efestoval
Memoria e versi dei Campi Flegrei. Percorso in versi tratto dalle opere di Mimmo Borrelli ‘A Sciaveca e Sepsa
regia, spazio scenico, oggetti di scena Mimmo Borrelli
con Riccardo Ciccarelli, Veronica D’Elia, Renato De Simone, Paolo Fabozzo, Enzo Gaito, Lucienne Perreca
e con Mimmo Borrelli
produzione Associazione Culturale ‘A Sciaveca
lingua italiano, rumeno, dialetto napoletano, dialetti flegrei
durata 1h 45′
Torregaveta, Stazione ferroviaria/Molo, 18 settembre 2015
in scena 18 e 19 settembre 2015

fonte www.ilpickwick.it

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