Ileana Bonadies da www.quartaparetepress.it
Durante i giorni di rappresentazione di “Opera Pezzentella”, andata in scena dal 25 al 28 giugno a Napoli, registrando per il secondo anno consecutivo un grande successo, abbiamo incontrato il drammaturgo, regista e attore di Bacoli per indagare la sua poetica, tra poesia e drammaturgia.
Foto di Cesare Abbate
Se Dante fosse nato a Torregaveta si sarebbe chiamato Mimmo Borrelli. È questo il pensiero che ci accompagna mentre seduti ai tavolini di un bar di via dei Tribunali, lo ascoltiamo parlare, raccontarci il suo lavoro, i suoi esordi e il suo crescente successo di pubblico e critica sempre più costellato di premi (l’ultimo, il Premio Hystrio alla Drammaturgia 2015). In scena con Opera Pezzentella presso il Complesso di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco per il secondo anno consecutivo (in concomitanza – non casuale – con il Napoli Teatro Festival su cui stravince per numero di spettatori prenotatisi per assistere allo spettacolo e l’attenzione suscitata, non senza interrogativi privi di risposta in merito al numero esiguo di giorni in cui resterà in programmazione: solo quattro) Borrelli è un fiume in piena di entusiasmo, passione, meticolosità, profonda conoscenza del suo territorio e della sua storia, e lungo e articolato, pertanto, si fa il viaggio che insieme intraprendiamo nel momento in cui iniziamo a parlare del suo “fare teatro”. Per meglio raccontarlo, scegliamo allora tre parole chiave che possano comprendere e contenere la sua poetica e come un gioco, lasciamo che sia la iniziale del suo stesso nome a suggerircele: madre, musica, memoria.
Madre. Come la lingua madre a cui il drammaturgo e regista trentaseienne ricorre per scrivere le sue opere, ma anche come la sua terra d’origine, quel porto sicuro da cui partire e ritornare ogni volta con un nuovo bagaglio di storie, detti, saperi, vite da trasformare, riadattare, drammatizzare. Perché se è vero che il percorso artistico di Borrelli è in divenire costante, saldo è il suo forte legame con i luoghi che lo hanno visto nascere, crescere e in cui tutt’ora vive. Quei luoghi di cui ha assorbito ogni centimetro di terra, di mare, di cielo, per poi lasciare che lo plasmassero, che rendessero riconoscibile la sua identità anche a chilometri di distanza; segno incondizionato di un amore e rispetto profondo per ciò che gli appartiene e che con curiosità e intelligenza ha inteso conoscere nel profondo, indagare, scoprire. Non accontentandosi di ciò che gli veniva raccontato ma esplorando con i suoi stessi occhi, ponendosi in ascolto, con le sue stesse orecchie, di ciò che lo circondava, anche senza necessariamente capire, rivelandosi più forte l’esigenza di abbandonarsi alle emozioni. A quell’inconscio che comanda la comprensione più intima e per questo più vera, consentendo di sentirsi vivi.
Foto di Cesare Abbate
E qui, ecco farsi indissolubile il legame con la lingua e inevitabilmente con i ricordi. Se infatti Mimmo Borrelli da calciatore promettente quale era, è poi diventato, oggi, tra i maggiori autori italiani, il merito è del suo professore di italiano e latino, Ernesto Salemme, che per primo ha scoperto la sua naturale predisposizione alla scrittura, soprattutto in forma di dialoghi, e alla scena, rivelatasi ancora di salvezza preziosa quando un brutto infortunio lo costrinse ad abbandonare la carriera sportiva. «Andavo a casa sua e mentre lui e mio fratello improvvisavano, io trascrivevo, scrivevo e reinventavo. È stata una vera e propria scuola di drammaturgia creativa durata cinque anni». Ma mentre l’attività teatrale si intensificava, cresceva anche la consapevolezza di non sentirsi a proprio agio in scena parlando in italiano: «In effetti la lingua dell’azione – purtroppo o per fortuna noi abbiamo tre lingue sceniche: il siciliano, il veneziano e il napoletano – è proprio il dialetto. E così ho iniziato a tradurre copioni nella mia lingua flegrea accorgendomi pian piano che essa aveva già l’azione insita dentro». Da qui la scelta di adottare questa modalità espressiva, forte anche di maestri quali Kantor, de Berardinis, Bene «che hanno lavorato sulla prosa per innovarla ma anche provocarla», creando uno «spartito già chiaro in scrittura che divenisse, poi, agito. A quel punto sono andato tra i miei dialetti, prima il napoletano, ma non mi soddisfaceva, e allora ho fatto ricorso a quelli flegrei» fortemente impregnati delle sonorità dei popoli che hanno abitato quelle terre, gli ebrei sefarditi, e di cui hanno conservato la cadenza strascicata molto simile alla Torah e che solo nella zona di Bacoli si parlano. «Ma non finisce qui! Perché Bacoli ha delle frazioni: una è Cappella (patria del poeta Michele Sovente che scriveva in cappellese, italiano e latino la stessa poesia) in cui si parla un dialetto particolare, con le finali in “o” probabilmente perché vi vivevano i contadini che lavorano per gli ebrei e quindi si è ereditato questo modo di parlare, teatrale già di pe sé; l’altra è Monte di Procida – che ha forse il dialetto più bello – che risente della natura da naviganti dei propri abitanti e degli scambi commerciali intessuti con i pugliesi a tal punto da avere inflessioni tipiche pugliesi e da richiamare alla mente, ascoltandolo, quello che potremmo definire un atavico raffreddore che incide sul suono delle parole pronunciate». Dall’unione di questi linguaggi, nasce quello che è il codice scenico di Borrelli, ovvero quell’idioma unico in grado di «dare maggiore forza a ciò che intendevo dire ma al contempo mi consentisse anche di proteggermi, ovvero mi permettesse di parlare di me attraverso coloro che mi sono più vicini – mia madre, mio padre, mia nonna –, e tutto ciò allo scopo di pescare la verità, così come non accade quasi più a teatro». Ma se questo linguaggio innovato, così identificativo, rappresenta certo una peculiarità, al contempo, potrebbe certo rischiare di rivelarsi anche un limite se non fosse che «il mio limite è anche il mio confine di infinito». Del resto, «quando fai prosa la cosa più importante è la parola, e la parola è corpo, non è staccata da esso. Per questo motivo, quando vado all’estero, la lingua da me adottata è così radicata nell’azione che pur essendo incomprensibile, è intuibile più del napoletano. Il limite del teatro in generale, piuttosto, è quando diventa troppo concettuale e adagiato alla comprensione comoda».
Foto di Cesare Abbate
Musica. «Qualcuno dice che avrei dovuto fare il compositore», esordisce Borrelli, sorridendo, quando gli chiediamo di declinare il significato di “musica” nel suo teatro in cui ricopre un ruolo importante. E il motivo – di cui abbiamo contezza immediata assistendo ai suoi spettacoli – è semplice: «La mia lingua già di per sé è evocativa perché ha una sua musicalità, a quel punto se accompagnata, come accade in Opera Pezzentella da musicisti bravi come Antonio Della Ragione, polistrumentista, a cui spetta il compito di creare l’armonia intorno all’effetto già sonoro della parola, ecco che musica, corpo e parole si ritrovano a viaggiare insieme». A confermarlo, l’idea che «il corpo suona e il suo movimento va a dare forza a una voce inequivocabile che a sua volta cambia in seguito all’impostazione del corpo». Se a ciò si aggiunge «un testo che si spera possa offrire degli appigli sonori in grado di svegliare una memoria emotiva di sé, ben tradotta dall’attore, e allora ecco che essa diventa un valore aggiunto», e – secondo noi – imprescindibile.
Memoria. Per comprendere al meglio il concetto di “memoria” così come inteso da Borrelli, è su come si sviluppa il suo processo creativo che bisogna soffermarsi. Ed è nell’ascoltare i passaggi attraverso cui si esso si cadenza, che scopriamo quanto rigore si nasconde dietro a ciò che potrebbe sembrare solo frutto di geniale ispirazione ed è, invece, il risultato di un lavoro metodico, costante, che inizia alle 8 del mattino e si conclude alle 4 del pomeriggio. Alla base, a rappresentare l’incipit di tutto ciò che ne conseguirà, la ricerca di storie di cui impossessarsi, da ascoltare dalla diretta voce dei vecchietti che ne sono protagonisti, registrare, trascrivere rigorosamente a mano e conservare in faldoni. Accanto a ciò, la lettura della Bibbia (il Vecchio Testamento in particolare), il recupero di detti tipici, l’individuazione di temi che particolarmente lo appassionano e infine l’interpretazione del presente: dalla fusione delle suggestioni sollevate da ciascuna di queste fonti, nasce il primo copione, che solo allora verrà battuto al computer. Della durata di svariati mesi, dunque, il momento della creazione a cui fa seguito il taglio e la riduzione dei circa 8000 versi iniziali in 5000, affinché il testo drammaturgico non si risolva in testo letterario ma in esso continui a comandare l’azione «nonostante la lingua resti così poetica». Ma se è vero, da un lato, che la memoria così recuperata «serve a me stesso per dare un senso a ciò che sto facendo», dall’altro è doveroso che essa venga tradita, lasciata libera per far sì che non muoia.
Foto di Cesare Abbate
Ed è a questo punto che la conversazione inevitabilmente ci porta alla tradizione teatrale di Eduardo e Viviani prima, l’uno individuato come la “grammatica” del teatro, l’altro come la “poesia”, e di Moscato e Ruccello poi, a cui invece va riconosciuto – ci spiega Borrelli – il merito di aver portato «in partitura il suono della parola», allo stesso modo di come a distanza di tempo, sta provando a fare lui stesso, sebbene «in maniera furibonda ed estrema» in nome di quel credo per cui «il teatro deve essere dirompente, scomodo, come una cerimonia laica» se si vuole che abbia senso. Quel senso che dopo essere stato modellato dal Borrelli-scrittore, è al Borrelli-regista che passa per compiersi definitivamente in relazione strettissima con gli attori coinvolti, attraverso cui soltanto il ruolo registico si esterna, raggiungendo il pubblico, ultimo, vero destinatario del proprio lavoro. Da qui l’importanza fondamentale di saper «accompagnare gli attori nel viaggio che si sta condividendo, aiutandoli a superare i loro confini e limiti, per formare una orchestra che possa suonare insieme» ed essere espressione reale – nonostante sia oggettivamente filtrata da diversi elementi (il cast, la scenografia, il disegno luci) ‒ delle intenzioni del suo autore. E questo, pertanto, il motivo per cui volontaria è stata la sua scelta di approdare alla regia in età matura, solo dopo essersi formato in tal senso, sebbene sin dai primi testi facilmente riconoscibili siano state le impronte registiche lasciate nello scrivere.
Prima di lasciarci, un passo in avanti nel futuro prossimo, quello che lo vedrà protagonista a Milano, al Teatro Grassi, ad aprile, insieme con Roberto Saviano: dopo un corteggiamento lusinghiero durato due anni, ecco finalmente concretizzarsi la loro collaborazione artistica intorno alla figura sacra e al contempo simbolica di San Gennaro in Sanghenapule, sintesi – si augurano di successo ma non senza timore per la lunga tournèe che li aspetta e per l’originalità del connubio che li vedrà insieme sia in fase di scrittura che in scena – del loro comune modo di raccontare Napoli, «io in modalità artistica, lui più di stampo informativo». E se al momento non prevista è una tappa napoletana per motivi organizzativi legati alla sicurezza dello scrittore sotto scorta, l’augurio è che un domani non lontano lo spettacolo possa arrivare anche nella nostra città… e a qual punto una nuova “m” aggiungeremmo alla nostra analisi: quella di “miracolo”.