Giovani attori montesi crescono, dopo Davide Mazzella e Gigi Bignone, il debutto allo Stabile di Genova per Mario Cangiano ne “La Dodicesima Notte” di W.Shakespeare
Le regole del gioco non cambiano. E non importa che sulla scena ci siano attori professionisti o, come in questo caso, allievi della Scuola di Recitazione del Teatro Stabile di Genova.
«Il regista è un organizzatore di giochi» spiega Marco Sciaccaluga, e «le prove sono un gioco serio, che deve essere guidato. Se lavori con attori che hanno già una lunga esperienza alle spalle devi scoprire un gioco che ancora non conoscono, con attori alle prime esperienze, invece, sei un campo aperto».
In questo gioco serio Marco Sciaccaluga sta guidando adesso, da regista, i dieci giovani allievi del Master della Scuola di Recitazione “Mariangela Melato”, per preparare l’Esercitazione su La dodicesima notte di William Shakespeare, che andrà in scena al Duse dall’11 al 17 maggio.
Come si svolge il lavoro di preparazione dello spettacolo?
Ho dedicato il primo mese a lavori di improvvisazione per far capire ai ragazzi come l’immaginazione passi attraverso i corpi e l’attività sensoriale. Jouvet diceva che l’attore pensa con il corpo, nel senso che deve riuscire a trasformare la capacità sensoriale in un linguaggio.
Al di là del talento e delle capacità dei singoli, ha notato differenze significative, negli atteggiamenti o nell’approccio alla recitazione, fra queste ultime generazioni di attori e quelle precedenti?
Un attore è dominato dalla sua capacità di immaginare, di mettersi al posto di un altro. Henry Fonda diceva: «Mi svito gli occhi»; è un’espressione efficace, perché immaginare per un attore è proprio questo, guardare il mondo al posto di un altro. Nella mia vita ho incontrato tanti attori che avevano una opacità di sguardo sul mondo e poi occhi che, invece, si illuminavano quando entravano nel loro personaggio. Questa capacità di immaginazione forse, generazione dopo generazione, sta diminuendo. Credo che dipenda dal modo in cui si comunica oggi, prevalentemente affidandosi a oggetti (computer, iPad, telefonini), mentre il teatro si fonda su una comunicazione diretta, sul contatto, sull’attività sensoriale.
Tutto questo è solo apparentemente naturale.
Gli etologi che studiano i comportamenti umani ci dicono che la comunicazione fra appartenenti alla specie umana si fonda per il trenta per cento sul linguaggio numerico, cioè verbale, e per il settanta per cento su quello analogico, non verbale. In un attore il linguaggio analogico è il centro del problema, perché un attore ha informazioni solo per il trenta per cento, mentre il resto è nascosto nel testo, va interpretato, sperimentato. Un attore è una macchina sensoriale il cui primo compito, per accostarsi all’immaginazione, dovrebbe essere quello di potenziare le capacità di sguardo e di ascolto. È quello che diceva Stanislavskij quando spiegava la differenza fra ascoltare e sentire e fra guardare e vedere: io ascolto per sentirti, guardo per vederti.
E la tecnica che posto occupa nella formazione di un attore?
Una cosa molto importante che va comunicata agli attori è “La dodicesima notte” ovve che la competenza tecnica non è distinta dalla propria vita interiore. L’attore è un malato e la sua guarigione passa attraverso il momento in cui capacità tecnica e anima diventano la stessa cosa, quando l’abilità tecnica diventa porta di accesso alla vita interiore e viceversa. E per raggiungere questo obiettivo va rimesso in moto il corpo, senza fare, però, la retorica del teatro di “performance”. Per far risuonare l’anima di Amleto ci vuole soprattutto il corpo di Amleto… Con il passare degli anni, però, si nota, come dicevo, una atrofizzazione di questa capacità di immaginazione.
Quanto conta il divertimento durante le prove di uno spettacolo?
Le prove devono essere un gioco, un gioco serio che va guidato, e il regista è un organizzatore di giochi, uno psichiatra, un tiranno. È un tiranno che ha il compito di liberare gli attori. La ripetizione è il fondamento del gioco del teatro, la ripetizione ossessiva delle parole deve servire a farle diventare il corpo dell’attore. Diderot diceva che l’attore è uno schiavo in catene, perché è al servizio del testo. L’obiettivo finale, però, è quello di dire quelle parole come se le avesse inventate lui stesso in quel momento. E questo si può realizzare solo con un torturante gioco.
Un gioco che, però, non ha nulla a che vedere con l’anarchia.
Al contrario: la garanzia per tenere il gioco è una disciplina ferrea. Il regista deve ricordarti quali sono le catene e portarti a spezzarle, e questo non ha niente a che vedere con la tendenza, manifestata oggi da qualche regista che va per la maggiore, ad affermare il predominio della libertà interpretativa che si fa arbitraria sovrainterpretazione. Marco Sciaccaluga racconta il percorso di formazione dell’attore e il lavoro con gli allievi dell’ultimo anno della Scuola di Recitazione. «Il regista teatrale è un organizzatore di giochi e deve essere il primo a smascherarsi»
Quanto è importante il gruppo per la riuscita di uno spettacolo?
Moltissimo. Ogni avventura teatrale è una tribù che attraversa il deserto. Peter Brook diceva che il cinquanta per cento di una regia è la distribuzione delle parti e il resto è la capacità di creare un gruppo, persone che siano legate cioè da un’amicizia professionale. Nel caso di una scuola di recitazione, come accade per questo spettacolo, è un po’ diverso, perché i ragazzi sono già abituati a stare insieme, anche se un’altra conseguenza dell’atrofia comunicativa è la tendenza a stare ognuno per conto proprio.
Qual è, secondo lei, il primo compito del regista durante le prove?
Un regista prima di tutto deve smascherarsi, che è l’arte dell’attore. Un attore non si traveste, si denuda. Quello del recitare è un gesto impudico: bisogna spogliarsi, perché il teatro è fondato sulla verità, e il regista deve essere il primo a non avere vergogna a denudarsi. E deve avere anche una fortissima capacità sensoriale, perché fondamentalmente il regista è uno spettatore, è il primo spettatore e deve aiutare chi deve raccontare una storia a raccontarla bene. Brecht diceva che il teatro è come un ruscello e l’attore come una barchetta di carta: il regista segue il percorso della barchetta per farla arrivare al mare, le dà un colpetto quando serve per raddrizzare la rotta e se la barchetta si rovescia la aiuta a ripartire. Secondo Brook l’attore sta al regista come il Fool sta al Re: è il suo esploratore ma ha bisogno del re, perché è lui a indicare i territori da esplorare. Mettere in scena un testo è come attraversare una giungla inesplorata, piena di pericoli ma anche di meraviglie. Il compito del regista è attraversare questo enigma, con gli strumenti a sua disposizione, e gli attori sono gli esploratori. Oggi si sta affermando l’idea di un attraversamento della giungla con il caterpillar delle proprie idee, per affermare una propria visione del mondo. Peccato, però, che così si attraversa anche la giungla ma, nel frattempo, ci si lascia alle spalle uno sterminio… Il mestiere dell’attore, invece, è fare propria la visione del mondo di un altro. Lo scandalo non è la modernizzazione, non è scandaloso se in una commedia scespiriana un attore ascolta la musica con la cuffia, ma c’è una modernizzazione che tiene conto del prorio presente per guardare all’universalità di un’opera e c’è una modernizzazione che, invece, la tradisce. Credo che, nell’affrontare un testo, possa aiutare il cosiddetto realismo negativo, perché se in teatro non posso dire che cos’ è una cosa, posso arrivare a dire cosa non è. Di fronte a un testo scespiriano il tuo compito è capire innanzitutto ciò che non è.
Che traduzione ha scelto per La dodicesima notte?
La traduzione che Anna Laura Messeri aveva fatto tanti anni fa per un suo Saggio. Io non posso che essere grato ad Anna Laura (direttrice della Scuola di Recitazione. ndr) e a Massimo Mesciulam, che sono il cuore di questa Scuola e quindi di questo Teatro
«È stata un’iniezione di allegria…». Mario Cangiano descrive così l’atmosfera nella quale sono iniziate le prove dell’Esercitazione su La dodicesima notte, la commedia di William Shakespeare che gli allievi del Master della Scuola di Recitazione “Mariangela Melato” del Teatro Stabile di Genova, porteranno in scena al Duse dall’11 al 17 maggio, con la regia di Marco Sciaccaluga. Mario è uno dei dieci allievi del Master impegnati in questa prova e ai quali abbiamo chiesto di raccontarci le prime impressioni e riflessioni su questa nuova esperienza.
Mario Cangiano (Sir Toby Belch nella commedia): «Avere la fortuna di lavorare con un regista come Marco Sciaccaluga è per noi soprattutto un’opportunità per arricchire la nostra formazione. E il fatto che il regista sia una persona esterna rispetto agli insegnanti della Scuola rappresenta uno stimolo in più».
Sarah Paone (Maria): «Rispetto al lavoro fatto a Scuola, abbiamo avuto un approccio molto “forte”, almeno per me, scollegato dalla parola, perché con Sciaccaluga abbiamo iniziato a prepararci con le improvvisazioni. Per me non è stato facile lavorare con il corpo. E poi questa è la prima volta che facciamo un lavoro collettivo».
Giovanni Annaloro (Antonio e un Altro Capitano): «A Scuola l’obiettivo primario era quello di insegnarci una tecnica, Marco invece ci insegna a giocare, ci dice: “Tu devi divertirti”. E così iniziamo a riscoprire la leggerezza, il gioco, dimensioni che avevamo un po’ perso di vista».
Emanuele Vito (Feste): «Adesso la tecnica può essere usata per divertirci».
Daniela Duchi (Viola e Cesario): «Per me è stata una scoperta importante imparare a perdersi in quello che fai facendolo». Giovanni: «Non è stato facile trovare un equilibrio di gruppo…».
Roxana Doran (Olivia): «Sì, perché non siamo più una classe, siamo una macchina che deve funzionare». Che cosa avete scoperto o imparato lavorando in gruppo?
Marco De Gaudio (Orsino): «Come gruppo abbiamo ancora tanto da imparare e da migliorare».
Michele Maccaroni (Sebastiano e Valentino): «Marco vuole che siamo sempre tutti presenti durante le prove, anche quando non siamo in scena, e questo ci è molto utile». Sarah: «Guardando gli altri che provano io vedo grandi bellezze che da sola non potevo vedere. Lavorando insieme è più facile rendersi conto dei miglioramenti degli altri che dei propri, ma anche questo aiuta a lavorare su di sé».
Francesco Russo (Sir Andrew Aguecheek): «Lavorare in gruppo ti fa prendere coscienza del fatto che la macchina deve funzionare ed è fatta di tanti ruoli».
Emanuele: «Prima eravamo preoccupati soprattutto della preparazione tecnica, adesso provare assieme agli altri ti dà la possibilità di scoprire lati diversi dei compagni e anche di te stesso. Gli esercizi e le prove ti permettono di scoprire parti del tuo corpo che normalmente nella vita non usi, e questo avviene anche grazie al gruppo, alle relazioni che devi avere con gli altri».
Michele: «Per me è stata molto importante la lotta contro l’ansia, la ricerca della calma, del vuoto. Quando compare il fantasma dell’ansia Marco lo dice e così diventa creativa».
Marco: «Nel percorso che abbiamo fatto finora siamo stati stimolati a smarrirci e a darci, per farci capire che solo smarrendosi e dandosi senza vergogna, e con un po’ di tecnica, l’attore può essere vivo e creativo in scena. Nelle camicie di forza delle battute bisogna trovare il proprio spazio e la propria libertà».
Daniele Madeddu (Malvolio): «Per me questo spettacolo è un banco di prova importante. Prima di cominciare le prove avevo molta ansia e, invece, è stato più semplice di quanto mi aspettassi, perché Marco ha la capacità di metterti a tuo agio e capisce che cosa c’è dietro ogni persona». Com’è stato l’approccio con la commedia di Shakespeare e con i vostri personaggi?
Daniela: «Quando ho letto la commedia non sono stata particolarmente colpita dal testo. Nell’interpretazione per me la difficoltà maggiore è quella di passare in un attimo da uno stato d’animo a un altro: per farlo ho smesso di pensare, l’unica cosa da seguire è il corpo. In questa commedia gli eventi si susseguono uno dopo l’altro, i personaggi pensano una cosa e poi cambiano idea, e allora devi lasciarti portare dagli avvenimenti».
Emanuele: «Per me una difficoltà è rappresentata dal linguaggio, perché Shakespeare usa moltissime immagini e questo ti costringe a sviluppare la fantasia. Per me è una sfida. E poi devi fare un percorso che parte da te per arrivare al personaggio». Daniele: «Io avevo il timore che il testo non arrivasse al pubblico, ma adesso non ho più questa preoccupazione. Più proviamo e ripetiamo le scene, più il testo mi piace».
Mario Cangiano: «Ci divertiamo e non abbiamo paura di uscire dai binari».
Daniela: «Non bisogna dimenticare che il secondo titolo della commedia è Quel che volete, un incitamento all’immaginazione. E, infatti, un tema importante è quello del travestimento». Daniele: «Così come quello dell’ambiguità di genere».
Sarah: «Poi ci sono gli inganni che i personaggi mettono in atto e che si ritorcono sui personaggi stessi. Il testo della commedia non ha battute folgoranti, ma è interessante il sottotesto delle azioni che Marco sta creando, perché le battute descrivono anche situazioni».
Giovanni: «Secondo me, quando leggi per la prima volta questo testo non ti accorgi delle sue potenzialità. Poi, un po’ alla volta, ti rendi conto dello spessore di ogni personaggio. Il mio lo sto scoprendo man mano che vado avanti e mi sta piacendo sempre di più».
Emanuele: «Io subito sono stato spiazzato dal mio personaggio, perché finora mi ero esercitato soprattutto su altre corde, tendenzialmente malinconiche. Il mio personaggio, Feste, invece, combatte contro la malinconia facendo il matto, perché se no morirebbe».
Giovanni: «Lo straordinario di questa commedia è che sembra scritta due giorni fa, parla dell’uomo di tutti i tempi».
Daniela: «Andando avanti con le prove mi rendo conto che molte situazioni o battute che all’inizio mi sembravano comiche, in realtà hanno dentro tutto: sono comiche e tragiche nello stesso tempo e hanno un significato universale». Marco: «Il mio personaggio è perdutamente innamorato di Olivia ma ancora di più dell’amore, fino ad esserne ossessionato. Quello che emerge da questa commedia è che l’amore non è un sentimento grazioso, ma può diventare una vera e propria nevrosi».
Roxana: «Io mi sono proprio innamorata del mio personaggio. Mi sto divertendo tantissimo. Cerco di capire com’è Olivia e di divertirmi nell’interpretarla».
Sarah: «I personaggi di Shakespeare sanno sempre che c’è un pubblico e questo è bello, è anche confortante sapere che il personaggio sa di essere osservato da un pubblico. Io finora avevo interpretato soprattutto ruoli drammatici e invece Maria, il mio personaggio, mi ha fatto scoprire corde di me che a Scuola non avevo sperimentato. Sulla scena bisogna “sputtanarsi” parecchio, ma sto scoprendo il piacere di ridere di me, del mio personaggio, di sentirmi buffa e di mettermi nei panni di una persona timida, cosa che io non sono».
Michele: «Per me la mia parte è stata una sorpresa, rispetto ai ruoli che avevo interpretato in passato. In questo spettacolo ho poche battute e poca presenza sulla scena, ma proprio questo mi sta insegnando molto».
Francesco: «Obbligandoci a essere sempre tutti presenti durante le prove Marco ci sta aiutando molto a trovare il percorso giusto per l’attore e per il personaggio. E durante le prove c’è molta serenità».
Daniela: «La dimensione dell’apprendimento, comunque, durante le prove resta sempre. Dopo, fuori, sarà più difficile ritrovarla…».
a cura di Annamaria Coluccia per Palcoscenico e Foyer – Teatro Stabile di Genova