È quasi un peccato, alla fine, dover ammettere che è tutto finto. E che quella appena vista, non è una rivoluzionaria mostra archeologica, ma una raffinata installazione d’arte contemporanea, che gioca sulla dialettica di vero-falso e sui meccanismi dell’attribuzione di valore operata dall’istituzione museale. Sarà visibile fino al 9 marzo, nella Sala della Meridiana al Museo archeologico nazionale l’esposizione sul “Più grande artista del mondo”, ideata e curata da Brigataes, nick dell’artista Aldo Elefante. Occhio ai dettagli, alle didascalie: ogni cosa dell’allestimento ricopre un preciso spazio, secondo un disegno specifico. Tema centrale della mostra, la visione esclusiva di antichissime ossa di un fantomatico, gigantesco cranio e di una mano. Sono frutto di un ritrovamento degli anni Trenta avvenuto a Cuma, accanto a frammenti di una pittura rupestre altrettanto enorme. Se lo straordinario scheletro ritrovato fu in vita autore di quel disegno, i reperti documentano quindi l’esistenza di un artista di proporzioni gigantesche, vissuto più di 40mila anni fa. Una scoperta sensazionale, che commosse persino il grande Ralph von Koenigswald, scopritore del Gigantopithecus, un primate preistorico vissuto un milione di anni fa. Ecco, il riferimento a von Koenigswald, reale luminare del passato per la paleontologia che dà un tocco di legittimità all’esposizione, ha un che di geniale. Ovviamente è tutto falso. Ma la storia non finisce qui. I pannelli spiegano anche come questi preziosi materiali cumani fossero pronti per un allestimento epocale, che avrebbe dovuto tenersi nel Museo archeologico nel 1939. Ma la cosa non fu mai realizzata, per il sopraggiungere della guerra. I reperti vennero conservati nei magazzini museali e dimenticati per quasi un secolo. La loro riscoperta è avvenuta solo in tempi recentissimi, grazie ad un misterioso faldone, rinvenuto durante una ricerca archivistica della Brigataes, in cui era contenuta documentazione dello scavo. Eccoli, quindi, finalmente esposti, i frammenti del cranio di uno scheletro gigante, lunghi più di due metri. Accanto, c’è una mano di un metro, un femore addirittura di sette. Tutti realizzati finemente con polistirolo resinato, così come la lastra in pietra, con tracce di pittura rupestre. Il segreto per provare a crederci e lasciarsi andare è guardare ma non toccare. È possibile anche guardare un video, apparentemente vecchio più di ottant’anni, che descrive le prime sensazionali scene del ritrovamento (in questa foto). Si tratta di una clip in cui si potranno riconoscere nelle vesti di attori, Paolo Caputo (direttore del Parco archeologico di Cuma), Alfredo De Dominicis (direttore di Editoriale scientifica), Marco De Gemmis (responsabile Servizio educativo della soprintendenza per i Beni archeologici), Daniele Marrama (presidente della Fondazione Banco di Napoli), Angela Tecce (direttrice di Castel Sant’Elmo), Andrea Viliani (direttore del Museo Madre). Assieme alla raffinata finzione, un tocco di realtà, più che efficace, costituita da tutto l’apparato documentario di antichi libri e trattati di paleontologia, a corredo delle ossa esposte. Provengono, in prestito, dal Museo delle scienze naturali, da quello di antropologia della Federico II, dalle biblioteche nazionali di Napoli e di Pavia. Una mostra, dunque, che mostra non è, che seduce e inganna, ma per una giusta causa. Il visitatore vivrà infatti uno slittamento di piani temporali, provando a riflettere sui paradigmi ed i protocolli scientifici, sul rapporto quantità-qualità attuati in ogni istituzione museale. L’esposizione sarà accompagnata da una pubblicazione che conterrà i testi critici di Angelo Trimarco, Francesco Poli e Antonello Tolve. Aperta tutti i giorni, tranne il martedì (giorno di chiusura del museo) dalle 9 alle 19.30.
(paolo de luca) FONTE www.repubblica.it
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