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RAFFAELE CANTONE è “l’uomo dell’anno” l’intervista Video Pacosmart al Liceo Seneca

 

DA REPUBBLICA.Raffaele Cantone è un uomo semplice, di quelli che un tempo venivano definiti “tutto casa e lavoro”. Non apprezza i lussi, non dedica attenzione agli abiti e disdegna i ristoranti: a Roma e a Milano dorme in caserma e condivide i pasti con la sua scorta in tavole calde da commesso viaggiatore. Un provinciale, orgoglioso delle sue radici, che non sono a Napoli, metropoli di splendori e miserie, ma in un paese, Giugliano, confuso nella sterminata periferia di tristi palazzoni cementati dalla camorra.
Lui però ama quel posto, dove continua a vivere con la sua famiglia nonostante sia diventato il confine avvelenato della Terra dei Fuochi: lo guarda ancora con gli occhi della sua infanzia, quando era un borgo profumato di alberi da frutta, «qualche mucchio di case tra piante di pomidoro, èdere e povere palanche», scriveva Pier Paolo Pasolini. Lì la gente sapeva che il futuro si costruisce sgobbando sodo, senza mai rinunciare alla dignità.

Oggi, a 51 anni, Cantone non riesce ad accettare che tutto sia stato stravolto, che in due decenni luoghi e valori siano stati cancellati da una colata di malaffare. Ed è da questo cruccio personale che nasce il suo tormento e il suo impegno, l’incapacità di rassegnarsi alla grande slavina che lentamente sta sommergendo l’Italia, procedendo da Sud a Nord. Un decennio di attività come magistrato antimafia gli ha dato una sola certezza: è inutile cercare di risolvere i problemi con gli arresti e i processi. C’è un male più profondo, sociale e morale, che le retate non hanno intaccato. E c’è la necessità di «salvare la botte finché è piena», ricostruire la speranza «dividendo il grano dalla malerba». Per questo adesso si è tuffato nella nuova attività di presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, forse il primo organismo creato nella storia della Repubblica per cercare di affrontare la questione.
L’incarico è arrivato quasi per caso. Fosse per lui, avrebbe continuato a fare il magistrato. Un lavoro che aveva sempre sognato. Figlio di un piccolo funzionario delle poste, appartiene all’ultima generazione che ha creduto nei concorsi pubblici come ascensore per la carriera. Il primo lo ha vinto all’Inail di Roma, per rendersi conto che con lo stipendio sarebbe riuscito a stento ad affittare una stanza. Poi è arrivata la toga, che gli ha permesso di concretizzare la passione per il diritto penale, l’unico trenta con lode del suo libretto universitario. Una strada tutta in salita, dalla pretura alla procura antimafia. Quando ha cominciato a indagare sui casalesi, non era un incarico prestigioso: il regno sanguinario del clan casertano non aveva ancora conquistato le prime pagine.
Un’attività difficile e rischiosa, che lo ha portato dai delitti al pilastro imprenditoriale della cosca. Poi è arrivato

                                            Roberto Saviano che ha trasformato alcune delle sue inchieste nel cuore della narrazione di “Gomorra”, imponendo il suo nome all’attenzione dei media. Ma risultati e popolarità in magistratura contano poco. Concluso il periodo come pm, si è ritrovato in Cassazione, nel massimario, l’ufficio che trasforma in regole le sentenze della Suprema corte. È stato come ripartire da zero, occupandosi soprattutto di fisco.
Due anni fa il tentativo di tornare a Napoli come procuratore aggiunto è stato bloccato dal Csm, che gli ha preferito candidati con maggiore anzianità e probabilmente più aderenze nel sottobosco delle correnti: una bocciatura vissuta come un trauma.
Altre lusinghe si erano già fatte sentire. Il Pd prima con Walter Veltroni e poi con Pier Luigi Bersani gli hanno proposto poltrone in Europa e al Senato, inclusa quella di sindaco di Napoli. Ma Cantone ha sempre detto no. Un rifiuto nato anche da un’alta considerazione per il ruolo dei partiti, che reputa fondamentali per la democrazia, e da una certa diffidenza verso i “tecnici” passati in politica. Si sente “uomo delle istituzioni” e finora non è riuscito ad immaginarsi in un ruolo diverso.
La chiamata di Matteo Renzi è arrivata in maniera inattesa. Negli ultimi anni Cantone aveva spostato l’attenzione dalle cosche alla corruzione, intuendo la metamorfosi borghese della criminalità organizzata, sempre meno armata, sempre più imprenditrice. Negli interventi su “l’Espresso” aveva sottolineato come gli organismi varati dal Parlamento per combattere le tangenti non erano mai stati resi operativi. E il nuovo premier nove mesi fa gli ha chiesto proprio di guidare l’Autorità anticorruzione. Non bisogna immaginarla come una task force: si trattava di circa trenta persone, organico che testimonia la scarsa volontà di combattere il fenomeno. Il segnale straordinario però è stato il consenso di tutti i partiti alla sua nomina. E la velocità con cui si è cercato di rendere efficace la struttura, fondendola con un’altra authority – quella per la vigilanza sui contratti pubblici – che nonostante contasse su trecento funzionari e troppi dirigenti non si era mostrata capace di ostacolare il mangia-mangia.
Cantone non è uno sceriffo, non ne ha i poteri e non si riconosce in questa figura. Da Roma a Milano, oggi viene sempre più evocato come la persona che finalmente caccerà i tangentisti, come l’ennesimo uomo della provvidenza. La realtà è assai diversa. L’Autorità che presiede non può condurre indagini, non può intercettare, né perquisire. Ha prerogative limitate, ma allo stresso tempo rivoluzionarie: può imporre la trasparenza. Obbligare ministeri, regioni, comuni e società miste a divulgare online come vengono spesi i soldi, dal primo all’ultimo euro: una delle colonne delle democrazie moderne.
Cantone non crede che si possa azzerare la corruzione. Ma ritiene che sia indispensabile costruire argini per ridurla «a livelli fisiologici, gli stessi dei paesi occidentali». E sa che questo obiettivo non si raggiunge con i processi penali o le manette: ha ben chiara l’illusione collettiva alimentata dall’epopea di Mani Pulite. Il cambiamento sarà possibile soltanto se diventerà patrimonio comune, se i cittadini e gli imprenditori si faranno carico di una svolta virtuosa. E se gli italiani si renderanno conto che vivere senza bustarelle non solo è etico, ma è pure conveniente: garantisce servizi migliori alla popolazione e più guadagni alle aziende.
Un approccio pragmatico, sintetizzato in poche righe: «aumentare l’efficienza nell’utilizzo delle risorse, riducendo i controlli formali, che comportano appesantimenti procedurali e di fatto aumentano i costi della pubblica amministrazione senza creare valore per i cittadini e per le imprese». Cosa significa? Che i piani anticorruzione obbligatori per gli enti pubblici non siano compitini burocratici, ma una diagnosi dei settori in cui si infila il malaffare. Finora queste procedure si sono rivelate inutili: «Ci sono municipi che hanno copiato il piano anticorruzione del comune vicino senza neanche cancellarne il nome». Nel caso degli appalti non vuole che l’Autorità riceva la documentazione su tutte le gare: una montagna di carte che non si riuscirebbe mai ad esaminare. È invece necessario concentrarsi sugli snodi dove prosperano le mazzette: le famigerate “varianti in corso d’opera”, che dilatano tempi e prezzi dei cantieri. Delle prime 90 analizzate, 21 sono state considerate irregolari: il caso più clamoroso è la Metro C capitolina, aumentata di 700 milioni e ancora lontanissima dal traguardo. Certo, c’è un problema a monte: la complessità delle procedure, quei regolamenti “criminogeni” che sembrano scritti apposta per trasformare gli appalti in un buco nero di illeciti. E anche su questo si vuole mettere mano.
Perché la missione è prevenire, non punire: agire prima che ci sia stato il danno, scoprire le situazioni sospette e indicare come correggerle. Quello che si tenta con l’Expo, mettendo un muro contro l’assalto dei tangentisti. Non è un’impresa facile. A Milano l’ufficio di Cantone è arrivato a un passo dallo scontro con i responsabili del Padiglione Italia, il cardine dell’evento ma anche quello più in ritardo nei lavori. Forse perché si contava sull’emergenza: l’occasione di sfruttare la corsa contro il tempo per ottenere più fondi e meno controlli. Come è accaduto con il G-8 alla Maddalena, inutile cattedrale dello spreco costata centinaia di milioni.
L’arma più forte è il commissariamento. Che però è “calibrato”: non riguarda l’intera azienda, meccanismo che nelle inchieste antimafia spesso ha portato a risultati disastrosi, ma solo il contratto sotto accusa: si mira a completare i cantieri, garantendo il risultato finale per la collettività. È un esperimento nuovo, che si sta applicando all’Expo, al Mose o ad altre realtà meno note: a Catania è toccato alla società dei rifiuti. Così ogni settimana gli impegni dell’Autorità aumentano. Ci sono altri scandali da fronteggiare; richieste di intervento da ogni parte di Italia a cui dare risposta formale e contemporaneamente la necessità di riorganizzare subito la struttura riducendone spese e ranghi. Ma Cantone non teme la quantità, da perfezionista ha paura solo di sbagliare. Anche perché sa che sono in tanti ad aspettare il primo passo falso per mettere tutto in discussione. E seppellire ogni speranza di cambiamento sotto una coltre di polemiche.

 

fonte www.repubblica.it

CANTONE E FRANCO SCOTTO PACOSMART

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