La leggenda di Acquamorta
di Iolanda Fevola
Ai tempi in cui Monte di Procida non esisteva ancora, ed era solo un luogo di lavoro per i pescatori dell’ isola di Procida che vi coltivavano i fertili campi, c’era un ricco signore di nome Cosimo che possedeva un grosso terreno proprio sopra il costone roccioso.
Quando quel signore andava a controllare il suo possedimento, capitava che portasse con sé anche l’unica figlia femmina, una ragazza bellissima che si chiamava Acqua.
Dall’alto del costone roccioso, Acqua contemplava la bellezza del mare, la fitta vegetazione e i colori brillanti dei fiori, il volo armonioso e sicuro dei gabbiani, lo scintillio del sole sull’acqua.
Lei, che viveva per tutto l’anno in città, non era abituata a quello spettacolo in cui era la natura a farla da padrona. Era affascinata da quel paesaggio che faceva sembrare gli uomini così piccoli.
– “Perché non ci trasferiamo a vivere qui, papà?” – chiedeva la ragazza al padre, ogni volta che lui la portava con sé in quel luogo incantato.
– “Scempiaggini!” – rispondeva il padre – “Ho da badare agli affari io! E come si può vivere in un posto come questo, lontano dalla civiltà: qui non c’è niente! E’ un posto buono solo per coltivarci la vite!”
Ora, la nostra Acqua aveva ormai compiuto sedici anni, e quando era estate e il papà era proprio di buon umore, riusciva a strappargli il permesso di andare con i fratelli a fare il bagno in quelle acque che lei definiva “sbriluccicanti”.
Un giorno, mentre era sulla spiaggia a scherzare e giocare con i fratelli, capitò che su quella stessa spiaggia arrivò una barca di pescatori.
Erano pescatori procidani.
Tra risa e grida i tre fratelli continuarono a giocare, ma ad un certo punto la loro palla arrivò nei pressi del pescatore più giovane, un certo Giosuè, che si era attardato sulla riva a sistemare le reti da pesca.
Acqua era corsa verso Giosuè a recuperare la palla: non appena era arrivata ai piedi del giovane, però, quest’ultimo aveva dato un bel calcio alla palla, facendola arrivare di volata verso i due ragazzi, che erano a qualche metro da loro, in attesa.
Acqua allora diventò rossa dalla rabbia, infuriandosi perché quel ragazzo aveva osato farle così sfacciatamente un dispetto.
Lo guardò dritto negli occhi, con i pugni chiusi, e tutta rossa in viso, gli disse:
– “Screanzato!”
Il giovane Giosuè, a sentirsi chiamare a quel modo, e vedendo come se l’era presa la ragazzina che aveva di fronte, scoppiò a riderle in faccia, provocando ancora di più le ire di Acqua.
Lei, che era una giovane ben educata e anche un po’ viziata, stava per partire con una delle sue lunghe tiritere…I fratelli la conoscevano bene, e così, non appena la videro scaldarsi e cominciare a dire, con l’indice puntato in aria, “Come si permette!”, si precipitarono a fermarla.
Ma Acqua non ne voleva sapere e iniziò a subissare il povero Giosuè di parole a raffica. Il fratello maggiore allora, temendo che il giovane potesse arrabbiarsi, la prese per un braccio e, severo, le ordinò di smetterla.
Acqua conosceva bene quel tono, e a malincuore, zittì.
– “Le chiedo scusa per mia sorella, è ancora una ragazzina. Noi staremo per far merenda, insisto perché si fermi a mangiare un boccone con noi!”
A quelle parole la ragazza, con il braccio ancora stretto nella mano del fratello, lo guardò come se le avesse appena annunciato di voler dar fuoco alla casa. Era impazzito? Invitare uno sconosciuto, pescatore, scostumato a fare colazione con loro?!?
– “Forza venga, non accettiamo rifiuti” – incalzò il fratello minore, con ancora sulle labbra un sorriso divertito per l’espressione di stupore della sorella.
Giosuè, in tutto questo giro di sguardi tra fratelli, si rese conto di aver non poca, ma parecchia fame, e dato che la giornata di lavoro non era per niente finita, decise di accettare l’invito.
Così i quattro si sistemarono sulla spiaggia a far colazione. I tre ragazzi iniziarono a chiacchierare e a mangiare di buon gusto, a ridere e scherzare, mentre Acqua, con la testa bassa e offesa a morte, mangiava il suo panino come se stesse masticando una di quelle pietre grigie di cui era fatta la costa!
Alla fine il pescatore ringraziò e se ne andò, con la pancia piena e felice di aver incontrato quei due ragazzi così simpatici.
– “Arrivederci signorina, grazie per l’ospitalità!” – disse poi, levandosi il berretto e andando via.
Acqua lo guardava in cagnesco, immaginando come sarebbe stato bello se un grosso pezzo di tufo giallo, di quelli che gli operai del padre andavano a staccare dalla montagna per costruire il casale, si fosse improvvisamente staccato per andare a finire sulla testa di quell’insolente!
Accadde poi che dopo quell’incontro Acqua, approfittando di un momento di distrazione del padre, riuscisse ad ottenere il permesso per andare sulla spiaggia a fare il bagno da sola.
Aveva pregato e ripregato, e alla fine, promettendo di scendere, fare un tuffo e risalire subito dopo, l’aveva spuntata.
– “Se non ti vedo ritornare subito” – aveva detto il padre con la testa ancora immersa nelle scartoffie, – “manderò i tuoi fratelli, e allora per te saranno guai.”
Felice come una Pasqua mista a Natale, Acqua si avviò verso il mare: incontrò un uomo che, insieme con la moglie, stava scendendo in calesse, e così si fece dare un passaggio.
In questo modo aveva recuperato un sacco di tempo! Era veramente felicissima.
Ma, tra un tuffo e l’altro, tra un’esplorazione sott’acqua e l’altra alla ricerca di pesci e molluschi, la ragazza s’era spinta troppo al largo.
Fu un niente: un’onda più grossa delle altre la fece bere e già stava per affogare, quando si sentì tirata su da una forza inaspettata.
Quando rinvenne, si trovava in una piccola barchetta. Si girò attorno, cercando di capire dove fosse, e…se ne avesse avuto la forza, sarebbe balzata in piedi. Riuscì però solo a dire: – “Tu?!?”
Di fronte a lei si trovava Giosuè: sulla faccia l’espressione di chi pensa: “Uhm…e se la rigettassi in mare?! Tanto non ci vede nessuno!”
Il giovane naturalmente si trattenne, e spiegò alla ragazza che aveva visto qualcuno andar sott’acqua e aveva fatto appena in tempo a tuffarsi per recuperarla.
Acqua aveva giusto la forza di guardarlo storto, e il giovane, per evitare che la ragazza cominciasse ad aprir bocca, subito le disse: “In un attimo saremo a riva e potrai ritornartene a casa!”
Acqua, vedendo l’espressione infastidita di Giosuè, si rese conto di aver sbagliato.
– “Io, ehm, ecco…volevo dire…grazie!” – riuscì a dire alla fine, facendo uno sforzo non indifferente.
Giosuè sorrise, “Non dovresti spingerti da sola così lontano, può essere pericoloso!” – le rispose.
Non l’avesse mai fatto! La ragazza aveva ormai recuperato le forze, si alzò in piedi nel bel mezzo della barca e cominciò: “Voi ragazzi! Sempre pronti a dare ordini! Non fare questo, non fare quello, è pericoloso…”
Giosuè si tirò una mano in faccia, come a dire: “che cosa ho fatto!” E poi disse: – “Senti io volevo solo dire che dovresti stare attenta: il mare non perdona.”
E così i due si trovarono a parlare, e a raccontarsi di come si sentivano a casa solo quando potevano vedere il mare.
– “Per te è facile…” – disse Acqua – “Tu abiti su un’isola! Io passo la maggior parte del mio tempo in città, chiusa tra le mura di un palazzo, dalla cui finestra vedo solo altre finestre. Il mare mi sembra così lontano… Quando sono qui invece è diverso, è come se fosse un’estensione di casa mia!
Quando guardo il mare mi sembra di vedere tutta la grandezza del mondo, mi sembra di vederlo quel mondo che sta proprio lì, dietro quella linea dove le onde si congiungono con il cielo…e ad ascoltarlo il mare, mi pare che mi stia raccontando qualcosa, qualcosa che solo io posso sentire…”
E così, mentre i due ragazzi parlavano, la barchetta era arrivata a riva. Ma erano anche arrivati i fratelli di Acqua, su due cavalli a galoppo. Scesero di fretta sulla spiaggia:
– “Acqua! Che fine hai fatto? Papà è infuriato perché gli avevi promesso di tornare presto! Forza vieni su!”
E i ragazzi, presa in groppa la sorella, scapparono via con i loro cavalli, giusto il tempo per salutare Giosuè e poi via, su per la strada.
Intanto il casale che il papà di Acqua si era fatto costruire era pronto, e dato che era giunta l’ estate e che i tre figli ci tenevano molto, il signor Cosimo decise di passare qualche mese lì con loro, così da poter sbrigare con più facilità i suoi affari in zona, ma senza stare troppo tempo lontano dai figli.
Dato quello che aveva combinato l’ultima volta, però Acqua non aveva più tanto facilmente il permesso di andare a mare da sola, e dunque spesso se ne stava dal casale a guardare la spiaggia.
Ogni giorno, all’incirca alla stessa ora, vedeva arrivare sulla spiaggia la barchetta di Giosuè. Lei la riconosceva. Alzava il braccio e lo salutava. Lui lasciava andare il remo per rispondere al saluto.
Quando i fratelli di Acqua erano liberi dal lavoro, Acqua poteva finalmente scendere giù al mare, fare il bagno e scambiare qualche chiacchiera con Giosuè: aveva scoperto che parlare con quel giovane era un po’ come stare ad ascoltare il mare.
Un giorno di quell’estate lontana, però, la barca di Giosuè non arrivò. Al casale di Cosimo arrivò la notizia che il giorno prima, a Procida, alcuni pescatori che erano usciti in mare, sorpresi da una tempesta, non avevano fatto più ritorno.
Anche il giorno dopo la barca di Giosuè non arrivò.
Acqua allora capì. Il giorno stesso, senza avvertire nessuno e senza chiedere a nessuno il permesso, si avviò verso il mare, e non fece più ritorno.
La voce si sparse, con grande dolore di tutti. E da allora quel posto cominciò ad essere chiamato Acquamorta.
Intanto molte persone si stabilivano sulla terraferma, prima solo d’estate, poi anche d’inverno. Il paese cresceva, e della storia di Acqua e Giosuè nessuno si ricordava più.
Nessuno, tranne il mare, che conserva il ricordo di tutte le vite passate.
di Iolanda Fevola