Il Napoletano con le sue parole non è un dialetto ma una lingua. A dirlo e riconoscerlo come tale è addirittura l’Unesco che ne fa patrimonio dell’intera umanità. Il Napoletano è secondo nella nostra penisola soltanto alla lingua ufficiale (l’italiano) per diffusione sull’intero territorio nazionale. La lingua napoletana è parlata oltre che in Campania in gran parte del Sud Italia: Basilicata, Calabria, Abruzzo, Molise, Puglia e anche a sud del Lazio. La storia antica ci racconta come il “napolitano” fosse la lingua ufficiale nel Regno delle Due Sicilie per tutti quei territori al di qua del faro di Messina.
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Il napoletano è un dialetto di Pietro Treccagnoli da IL MATTINO
Il napoletano è un dialetto e non è una lingua. Bisogna ammetterlo senza falsi orgogli e senza imbarazzate rassegnazioni. Non è il caso di stare a spaccare il capello sulla lunga tradizione storica, letteraria e musicale (con Giambattista Basile, Salvatore Di Giacomo, Eduardo e Viviani in prima linea). Oppure tirare la corda dell’oralità e della vivacità del parlato. O spararla grossa sulla necessità dell’insegnamento scolastico della lingua dei padri e delle madri, puntanto i piedi come un leghista figlio di un dio minore. E no, basta. Il napoletano è un dialetto e bisogna esserne orgogliosi, a prescindere.
E’ un dialetto per un motivo semplice semplice: manca la standardizzazione. Mettiamo da parte i modi barbari in cui si scrive in napoletano nelle Rete. A ficcare il naso in Facebook e in tutto il resto sembra di leggere il basco o una lingua fatta di codici fiscali senza vocali e tutta consonanti, altro che la suadente parlata che risuona nel golfo della sirena Partenope. Ma neanche i grandi maestri si sono messi d’accordo su piccolezze come, per esempio, l’articolo indeterminativo: “na” “nu”, cioè, il corrispondente di “una”, “uno” e “un” dell’italiano. C’è che li scrive con l’apostrofo (l’aferesi) davanti (“‘na”, “‘nu”) e chi senza (“na”, “nu”). Chi ha torto e chi ha ragione? A rigore non dovrebbe esserci l’aferesi, perché quel segnetto indica una lettera che è “caduta”. Ma che cos’è caduto? Niente, la “u” in napoletano non c’è mai stata, quindi l’aferesi è inutile. Eppure è usata molto, soprattutto dagli autori di testi di canzoni, non fini letterati, ma comunque autori.
E poi “mo’”, che sta per “ora”, “adesso”. E’ scritto “mo’”, “mò” e “mo”. Comunque lo si scrive c’è qualcuno che lo indica come errore, impugnando la matita rossa e blu.
Un altro esempio. La famosa frase di De Filippo “adda passà ‘a nuttata” si scrive proprio così (come scriverebbe un qualsiasi napoletano doc) o, come ha scritto lo stesso Eduardo nel testo a stampa di “Napoli milionaria”, “ha da passà ‘a nuttata”? Qui si potrebbe aprire un dibattito che ci porterrebbe lontanissimo. “Ha da passà” è manzoniano (“Questo matrimonio non s’ha da fare”), ma non è napoletano. Eppure è la formula considerata più corretta, per un complesso di sudditanza con l’italiano.
Abbiamo segnalato delle piccolezze, perché se ci si addentra nella morfologia e nella sintassi ci sarebbe bisogno di un trattato. Napoli non ha mai avuto una sua Accademia della Crusca, istituzionalmente riconosciuta. Nessuna casa regnante ha mai usato il napoletano come idioma ufficiale. Non esiste un manuale di grammatica degno di questo nome. Pensate che uno dei più noti è stato scritto, molti anni fa, da Aurelio Fierro, grandissimo cantante, ma che non poteva vantare titoli e competenze da filologo. Una cosa è “Guaglione”, “‘A pizza” o “Nanassa”, un’altra lo studio comparato di testi, la costruzione di una fonetica aderente ai suoni e tutto quanto è necessario per dare norme univoche.
Il napoletano è un linguaggio mobile, data la sua natura parlata. Nessuna lingua è rigidamente marmorea, altrimenti ci sarebbe toccato ancora il latino, se non l’etrusco. Il napoletano ha quindi un vantaggio perché può trasformarsi ed essere sempre aderente al suo tempo, con una sua straordinaria sinteticità descrittiva, una flessibilità maestosa, una felicità espressiva che intreccia ironia e rigore, sacro e profano, sangue e anima.
Il napoletano, proprio perché manca di un testo condiviso di riferimento, è volatile. E’ parlato correntemente e quotidianamente da milioni di persone certo più dell’islandese che è considerato una lingua, e più del croato. E’ capito, sufficientemente bene, grazie al carattere internazionale della nostra canzone, da un numero ancora più vasto di persone. Tutto quello che volete: ha letteratura, storia e parlanti, ma non basta. Servono regole ed eccezioni, declinazioni e coniugazioni, codificate e valide per tutti. Altrimenti che cosa s’insegna?
Quindi che ce ne importa se è un dialetto o una lingua? E’ una faccenda tutta nominalistica. L’importante è la sua vitalità. Continuiamo a parlarlo e a cantarlo, soddisfatti che il napoletano esiste, ma il padano no, né scritto, né parlato, men che meno cantato.
Pietro Treccagnoli da IL MATTINO