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Intervista a Pino Scotto «La mia Milano a tutto rock’n roll».

«Chi è rock ‘n roll oggi in Italia? Pino Scotto, senza dubbio». Capelli corvini sulle spalle, maglietta camuffata dei Nine Inch Nails e pacchetto di Lucky Strike ben in vista sulla scrivania, a 63 anni suonati Pino Scotto è senza dubbio l’icona dell’heavy metal italiano che uno si aspetta di incontrare. Soltanto un bicchiere d’acqua che sorseggia di tanto in tanto stona con l’insieme da burbero hard rock: «Porta pazienza, ma devo smaltire Jack» mi anticipa ridendo.

Quella che Pino indossa è una maschera con cui gli piace giocare: autentico spirito rock da quarant’anni sulla cresta dell’onda, dismessi i panni da belva da palcoscenico Scotto ha testa e cuore nel sociale, in centro America, dove lontano dai riflettori si occupa dei progetti umanitari dell’associazione Rainbow, fondata insieme alla moglie. Adesso che è in pensione, buona parte dei proventi dei suoi concerti, finiscono lì.

La sera prima del nostro incontro, Pino Scotto ha chiuso i concerti invernali della tournèe Codici Kappaò, che ripartirà dalla Toscana il prossimo 1 giugno. Un centinaio di live su e giù per la penisola per presentare il nuovo disco Kappaò. http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=yKnwzxRCSYo
Un album lanciato da Angus Day, un tributo ad Angus Young e agli Ac/Dc (guarda il video a fondo pagina), che conta le collaborazioni più varie, da Edoardo Bennato, ai Modena City Ramblers, ai Club Dogo.

Dopo aver lavorato con Caparezza nel disco precedente, un nuovo attestato di stima del mondo musicale italiano a uno degli artisti più autentici e longevi del nostro panorama: pur avendo sempre sfuggito i canoni del mainstream, Pino Scotto è diventato lo stesso un’icona, prima coi Vanadium, poi come solista. E negli ultimi anni, grazie alla rete, si è affermato come fenomeno virale prima su RockTv e poi su Youtube con i suoi commenti diretti sui colleghi, sui giovani e sullo stato della musica nel nostro paese. Chi non ricorda il caustico affondo contro le dimissioni da rockstar di Vasco Rossi?

A differenza del Blasco, Pino in pensione c’è davvero da qualche anno, dopo una vita passata in fabbrica come magazziniere. Ma il palcoscenico non ha intenzione di lasciarlo.
«La fabbrica mi ha tenuto con i piedi per terra – spiega Pino con orgoglio – È il lavoro che mi ha permesso di mantenere la mia dignità di artista, senza dover scendere mai a compromessi con nessuno».

Pino, in Angus day canti «per celebrare il vero rock’n roll». Chi lo fa, oggi, in Italia?
«Pino Scotto, senza dubbio. E un sacco di altre band sconosciute. In Liguria, ad esempio, mi piacciono molto i Sadist. Ma c’è pieno un po’ dappertutto di gruppi di ragazzini che spaccano. Sai cosa mi piacerebbe avere? I soldi di Vasco e Ligabue. Un po’ per fare di più con il nostro progetto Rainbow. Un po’ per aiutare davvero queste band che lo meritano».

Allora mettiamola così: ti svegli coi soldi di Vasco e Ligabue. Cosa fai?
«Metto su un’etichetta e mi faccio la mia distribuzione, la mia tv e la mia agenzia. Così la metto in quel posto alle major e alle loro strategie».

Ma cosa vuol dire essere rock?
«Non è soltanto una questione di genere: vuol dire fare buona musica ed essere sempre vicino alla gente. Anche Jannacci e Califano erano rock. Anzi, erano molto più rock loro di tanti altri stronzi che hanno la pretesa di essere rock. Erano dei grandi artisti: sempre vicini alla gente».

In Codici Kappaò hai lavorato con artisti molto diversi tra loro, da Bennato ai Club Dogo fino ai Modena City Ramblers. Qual è il filo conduttore?
«Sono cose che in America si fanno tutti i giorni, ma da noi suonano ancora un po’ strane. Io le faccio fin mio primo disco dopo i Vanadium, perché la contaminazione mi ha sempre affascinato. Mi piace moltissimo mescolare la mia musica con generi diversi: suonare insieme a gente lontana dal tuo mondo ti arricchisce. E a me intriga moltissimo».

Com’è stato l’incontro con i Club Dogo?
«Sono amici di scorribande. Loro sì che sono veri, parlano di cose che conoscono, non inventano nulla. Sono come i Modena City Ramblers: adoro il loro modo di essere autentici. Dovevano nascere in Irlanda, non Italia».

E con Edoardo Bennato, com’è andata?
«La cosa più bella del disco l’ho fatta con lui. Siamo tutti e due napoletani e ci conosciamo da moltissimo tempo. Edoardo scrive ancora dei grandissimi pezzi, ma purtroppo il pubblico se l’è un po’ dimenticato. Però resta un enorme artista. Ricordo negli anni Ottanta un suo concerto, a San Siro: da solo con la chitarra, un’armonica, un tamburello e la sua voce aveva zittito e conquistato uno stadio».

A proposito di Milano, qual è il tuo primo ricordo della città?
«Sono arrivato a Milano negli anni Settanta, per fare il militare. Erano anni in cui per noi non c’era nulla, salvo due buchi dove si suonava: il Punto rosso e il Caramellone, al Parco Lambro».

Quando hai iniziato a suonare?
«A 17 anni. Che casino: ero scappato da casa mia, a Monte di Procida, per raggiungere Napoli, la città. Un miraggio. Ma per i primi due mesi ho dormito in una 500: mi ospitava un parcheggiatore abusivo, che mi passava l’auto quando gliela lasciavano i clienti. Lì ho iniziato a suonare con la mia prima band, gli Ebrei. Alla chitarra c’era Bruno Limone (storico chitarrista di Bennato, Patty Pravo e Alan Sorrenti, ndr). Puoi immaginare con che strumenti suonavamo. Mi vien da ridere ai ragazzini di oggi che prima di saper fare due note vogliono il Marshall e la Les Paul».

Poi, a Milano, a lavorare in fabbrica.
«Sempre. Finivamo le serate coi Vanadium, ci ubriacavamo tutta la notte, e all’alba giù a scaricar cassette. Che tempi».

Ma tu ti senti milanese?
«No, anche perché i milanesi non esistono più. Negli anni Settanta era diverso, la città era più vivibile, c’era lavoro, c’era il jazz, quello che è arrivato al capolinea e oggi non esiste più. Oggi Milano è più internazionale, ma ha perso la sua anima».

In che zona vivi?
«Porta Romana. Vivo nella stessa casa con mia moglie da quando siamo a Milano: prima in affitto, poi ce la siamo comprata. Erano gli anni Settanta di cui ti parlavo prima: il padrone di casa mi telefona e mi fa: Signor Scotto, vendo il palazzo: se la vuol comprare? Ci pensiamo, chiedo in prestito i soldi ai miei e poco a poco ci siamo comprati la casa con il lavoro. Altri tempi. A ripensarci, comprare la casa è l’unica cosa buona che ho fatto in quegli anni».

Quali sono i locali preferiti di Pino Scotto?
«Il Rock on the road di Desio, dove ho chiuso la prima parte del tour, è sicuramente il locale più rock’n roll d’Italia. A Milano mi piaceva il Rolling Stones, che mi spiace un casino che abbiano chiuso per farci un posteggio. Per suonare mi piacciono anche l’Alcatraz, il Factory verso Linate e il Theater di Rozzano. Però il locale che frequento di più in città è il Rock’n roll di via Bruschetti: il proprietario è un ex roadie dei Vanadium ed è riuscito a creare qualcosa di autentico. È il posto che preferisco a Milano: tutti i mercoledì, dalle 21 alle 23, ci trasmetto il mio programma su rocknrollradio.it».

Vai spesso ai concerti?
«Purtroppo no, non ci posso più andare, perché è pieno di ragazzi che mi chiedono di fare la foto con loro. A me fa piacere, ci mancherebbe. Però dico: Cazzo, sei a un concerto: guarda chi sta sul palco, non me».

Pino, posso chiederti un piacere?
«Dimmi».

Facciamo una foto assieme?
«Ma vaff…»
Pino si mette a ridere, poi mi abbraccia, si mette in posa, e di foto ne facciamo un paio. A casa ne ho ancora una uguale: l’abbiamo fatta insieme dieci anni fa al Ju Bamboo di Savona, un locale che non esiste più. Se la guardo, l’unico invecchiato nella foto sono io. Pino, invece, è sempre rock’n roll.

Matteo Paoletti

 

fonte http://milano.mentelocale.it/51936-lombardia-pino-scotto-mia-milano-tutto-rock-n-roll-intervista/

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