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La Vera storia di Vera Jarich – vita esemplare di un’educatrice alla non violenza

– Mi chiamo Vera Jarich e il mio nome lo dice, sono di origine ebrea . Mio nonno era ebreo. Abitavamo in Italia durante il periodo della seconda guerra mondiale, a Venezia poi…Quando nel 1939 Mussolini emanò le leggi razziali che escludevano gli ebrei da tutti gli ambiti professionali, culturali e sociali dello Stato Italiano, mio padre decise che quello era il momento di andar via,  di lasciare questo paese che non ci riconosceva. Mio nonno che era molto più ottimista di mio padre disse che non c’era nulla da preoccuparsi e decise che lui invece in Italia ci sarebbe rimasto. Non volle lasciare questa terra  a cui sentiva di appartenere, nonostante la sua diversità etnica e culturale. Ci imbarcammo su una nave a Genova, direzione Argentina,  nuova terra, nuovi orizzonti, nuove speranze. Mentre la nave salpava carica di emigranti, mio padre preoccupato salutava il suo amato padre con il cuore gonfio di sofferenza e di preoccupazione. Chissà quando l’avrebbe rivisto!.-

Parla con voce bassa  e un po’ rauca Vera Jarich , si scusa con tutti, studenti e docenti: “Sono giorni che parlo, è normale che la voce mi abbandoni, ma quello che ho da raccontarvi è importante perché ciò che è accaduto una volta potrebbe accadere ancora” – Poi, sfodera un sorriso angelico, dolce e avvolgente e dimentichi che è un’anziana signora di ottant’anni, la vedi nella sua essenza interiore una ‘bambina’ che nonostante tutto ha ancora voglia di vivere, credere e sperare nei valori veri della vita. – Mio nonno non lo rivedemmo mai più. – Nel 1943 fu deportato nel campo di concentramento di Austwitzch  dove morì come tanti altri ebrei, lasciandoci nel cuore l’ulteriore vuoto di non riavere la sua salma a cui dare degna sepoltura. Non so se avete chiaro a cosa serva il rituale della sepoltura. Esiste da millenni, si perde nella memoria dell’umanità e serve a ridare alla famiglia della salma la capacità di elaborare il lutto, di ricomporre nella propria anima , tassello per tassello la propria memoria interiore, una cosa importantissima per l’identità di una persona ma…noi non riavemmo mai il corpo di mio nonno”. – In Argentina ricostruimmo la nostra vita familiare e sociale e la vita sembrava scorrere tranquilla nonostante tutto.

Fu nel 1976 che la situazione precipitò quando i Generali dei corpi armati dello Stato Videla, Massera e Agosti (tutti italiani)  definirono la loro dittatura militare che durò dal 1976 al 1983, ‘ Processo di Riorganizzazione Nazionale’. Bisognava riorganizzare tutto l’ordinamento sociale, politico e culturale dello Stato per legittimare nuove regole e un nuovo ordine, che poi è vecchio quando il mondo, quello della sopraffazione dell’uomo sull’uomo, eliminando tutti coloro che credevano nella libertà e nella dignità umana. Libertà e dignità possono sembrare solo due parole, tra l’altro colme di equivoci in questa società dei consumi, ma se ci pensate la loro essenza indica il rispetto per se stessi e per l’altro. Un rispetto che passa attraverso tutto, la comunicazione, le relazioni, i gruppi sociali spontanei, le Istituzioni cioè la famiglia, la scuola, la società, l’economia e infine lo Stato. Dal 24 marzo 1976 l’Argentina decise di eliminare tutti coloro che avrebbero ostacolato anche solo con la loro presenza questo piano. Fu chiamato il Piano Condor. “…prima elimineremo i militanti, poi elimineremo i collaboratori, poi i simpatizzanti ed infine i timidi…” questi furono gli ordini dei tre generali. Il tutto però sotto silenzio. Il resto del mondo non avrebbe dovuto sapere, non ci sarebbe dovuta essere tanta pubblicità come era accaduto in Cile nel 1973. Tali erano gli orientamenti della comunità internazionale. I militanti erano tutti coloro che promuovevano i diritti umani e sociali, fossero di sinistra o cattolici aveva poca importanza – ciò che era importante era che essi esprimevano la loro opinione o il proprio sostegno a favore della dignità umana che prima ancora di essere un concetto etico-morale è un concetto religioso.

‘L’uomo possiede una dignità per il solo fatto di essere una creazione di Dio’ – almeno questo è ciò che dice la Bibbia e i Vangeli e anche i testi sacri delle altre religioni.. Fu così che silenziosamente sparirono 30.000 persone, un’intera generazione, quella degli anni ’50 tra studenti, insegnanti, psicologi e psicoterapeuti, avvocati, assistenti sociali e operai impegnati nel sindacato. E’ questo è ciò che oggi viene chiamato fenomeno dei desaparecidos. Sparivano, improvvisamente le persone sparivano, e non rientravano più alle loro case. Anche mia figlia sparì un giorno. Mia figlia aveva 18 anni, era una bellissima ragazza che sorrideva sempre perché amava la vita,  militava nel movimento studentesco per una scuola più giusta , come tanti allora, e voleva diventare un’insegnante perché aveva capito che è dall’educazione che si forma la civiltà. Mia figlia sparì e incominciò il mio incubo.

Cominciai a cercarla dappertutto, rivolgendomi a chiunque, amici, parenti, poi funzionari degli uffici,  fino ad arrivare alle cariche più alte dello Stato, ma le risposte erano vaghe, mi  rispondevano “…cosa vuole signora sarà andata via con il fidanzatino per qualche tempo…” e tante altre cose banali e superficiali che mi facevano percepire il muro, il muro del silenzio. Un silenzio che si ripiegava in se stesso ed entrava nella mia anima aprendo un abisso profondo, un abisso da cui percepivo che mia figlia non esisteva più, e da cui avrebbe voluto uscire un urlo, l’urlo del dolore e  della disperazione di non ritrovare più mia figlia, viva o morta, di non riavere la sua salma per darvi degna sepoltura.Un urlo che però non riuscì ad uscire mai dalla mia bocca tanto enorme era l’abisso della mia anima che il respiro vi rimaneva intrappolato, strozzato in tutto quello sgomento. Tre anni dopo, quando tra la gente cominciò a divulgarsi una minima conoscenza di quei crimini e misfatti, l’allora nunzio apostolico del Papa  Mon. Pio Laghi ad una convocazione di noi Madres de plaza de Mayo ci disse:  ‘ Certo, signore se le loro figlie sono via da tre anni, saranno state torturate molto e certamente non verranno rilasciate più”.

Sorride ancora Vera Jarich mentre racconta il suo dolore e non si capisce da dove giunga quel suo sorriso angelico, nonostante l’orrore, racconta dei metodi di tortura, dell’addestramento dei carnefici cominciato qualche anno prima, delle esecuzioni dei voli della morte e di altro ancora…’

– Mi chiamo Vera Jarich, sono una delle Madri fundadore delle Madres di Plaza del Mayo, il movimento di protesta contro la dittatura Argentina. Il 24 Maggio festeggiamo la ricorrenza del nostro primo giorno di protesta, il giorno in cui noi Madres cominciammo a girare in fila indiana lungo il perimetro della piazza con le foto dei nostri figli al collo, perché solo questo ci era consentito fare. In silenzio, come tutto  era  stato consumato nel silenzio. Raccontiamo la nostra storia per non dimenticare, per lasciarvi una memoria storica, tra di noi ci furono molti italiani, e soprattutto per dirvi che: “…a nessuno di noi venne mai in mente di imbracciare un’ arma  e cominciare un’altra guerra contro la ‘guerra sporca’…perché la guerra non si può combattere con altra guerra…se ci si vuole porre fine.” Questo solo voglio dirvi: “…ciò che è accaduto una volta potrebbe accadere ancora…è per questo che dobbiamo restare vigili tutti e lavorare quotidianamente per abbattere il muro dell’indifferenza, il primo mattone della nostra anima che ci impedisce di costruire una società più giusta e soprattutto più sana…”

PS. Ho conosciuto Vera Jarich e la sua amica Angela Boitano alla Biblioteca civica di Pozzuoli per la presentazione del Laboratorio di Storia diffuso – Ismli – Landis e Aicew su Percorsi di Storia e memoria tra Italia e Argentina.

Non credo che le dimenticherò tanto facilmente, se è vero che il nostro percorso di vita quando è profondo è costellato di presenze significative, Vera e Angela resteranno sempre nel mio cuore, anche se non dovessi incontrarle mai più.

Assunta Esposito

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