L’isola sequestrata. Pirati, marinai e non solo. Savina Caylyn e Rosalia d’Amato”
Mercoledì 8 febbraio alle ore 17,00, a Napoli, presso la Libreria MONDADORI, in Piazza Trieste e Trento, 52, sarà presentato il libro di Domenico Ambrosino “L’isola sequestrata. Pirati, marinai e non solo. Savina Caylyn e Rosalia d’Amato” (Massa Editore). Presente l’autore, interverranno alla manifestazione, i giornalisti de Il Mattino, Marilicia Salvia, che scritto la prefazione, e Ciro Cenatiempo, il sindaco di Procida Vincenzo Capezzuto, i marittimi procidani sequestrati.
Sarà anche proiettato il video “316 giorni in 5 minuti”, realizzato dal web Procida TV di Max Noviello.
“ Il libro – dice Domenico Ambrosino – racconta, come in un “giornale di bordo” , la cronaca delle sofferenze e degli stenti patiti dai lavoratori del mare in mano ai pirati somali, insieme all’angoscia, la rabbia e l’orgoglio di Procida, un’isola che ha nella navigazione la sua principale fonte di vita e di lavoro. Il tutto inquadrato nel fenomeno della pirateria marittima, un problema, con forti implicazioni anche internazionali, che sta mettendo in grande difficoltà il mondo dello shipping”.
Introduzione di Marilicia Salvia, giornalista de Il Mattino
Quello del marittimo è un mestiere duro. Nel duemila come cent’anni fa, faticoso e carico di incognite. Si va per mare per mesi e mesi, settimane e settimane senza vedere terra. Soli a fare i conti con l’ostacolo più ingombrante, la nostalgia di casa. Un mestiere che più di tutti ricorda la condizione dell’emigrante, e non foss’altro che per questo richiederebbe molta più attenzione di quanta non ne riceva, dalle istituzioni come dai mezzi di comunicazione. Si va per mare per costruirsi un futuro, membri di equipaggi chiamati ad accompagnare carichi più o meno preziosi, greggio o sementi di qualche tipo, da un capo all’altro del mondo, su navi più o meno moderne, più o meno sicure. Si va per mare per passione o per necessità, e si finisce, si può finire, prigionieri di un incubo. Prigionieri di gruppi di gente disposta a tutto. Li chiamano pirati, sono banditi e vogliono soldi. Armati di fucile e computer, di kalashnikov e telefoni satellitari, sono capaci di trattenere per giorni, mesi, anni i loro ostaggi. Con cinica pazienza, con levantina furberia, contando su appoggi e canali che li inquadrano in una categoria criminale precisa, quella del terrorismo internazionale. Che con la loro azione contribuiscono a finanziare e alimentare. I pirati del Duemila hanno covi nel Puntland, regione remota e infida dell’Africa centrale, cuore di un territorio con molti padroni e nessun governo. Colpiscono interessi di società armatoriali con sede in diverse nazioni, Italia compresa. Contrattano, come veri uomini d’affari, con mediatori più o meno occulti e incassano sotto forma di riscatto i premi delle
assicurazioni. Fuggono dopo il , come qualsiasi bandito farebbe, dividendosi il bottino milionario e senza che nessuno finora, nè la polizia del loro Paese nè gli organismi investigativi internazionali, riesca a mettere le mani su uno soltanto di loro. Ritornano nel loro nulla, un buco nero in cui gli interessi fanatico-religiosi si mescolano pericolosamente con gli interessi di
chi per condurre a termine il suo risiko punta al mantenimento delll’instabilità culturale e politica di quell’area. E su questo tavolo, il tavolo di un gioco molto più grande e pericoloso di quel che potrebbe apparire, i marinai sono pedine inconsapevoli e incolpevoli. Poveri cristi usati come
merce di scambio. Tenuti a mangiare riso e a dormire per terra, tutti insieme sul ponte di comando, guardati a vista con i fucili e all’occorrenza torturati perchè chi deve pagare, dall’altra parte del mondo, capisca bene qual è la posta in palio. Abbiamo imparato a conoscerli, questi prigionieri dell’incubo, nei mesi lunghi e bui di due sequestri paralleli eppure molto diversi, quelli del cargo e del mercantile . Navi napoletane, equipaggi di Procida e della Costiera sorrentina (ma anche indiani e filippini), che avevano lasciato a casa famiglie a loro volta distrutte dall’attesa, torturate dall’angoscia. E divorate dal dubbio se fosse giusto protestare, agitarsi, farsi sentire forte nei palazzi della politica, dalla Regione fino al Quirinale, come per un certo periodo hanno scelto di fare i familiari dei marittimi della , o se invece fosse meglio tacere, fidandosi in silenzio del lavoro dei mediatori, come hanno preferito i parenti degli ostaggi della . In entrambi i casi, l’odissea si è conclusa con il versamento del riscatto, e il ritorno in famiglia dei marinai finalmente rilasciati. Questo è il racconto di quell’odissea. E della sua fine che ha portato sollievo ma che non
smette di lasciare amarezza. Il diario quotidiano, raccolto giorno per giorno da Domenico Ambrosino in pagine dense di informazioni in presa diretta e cariche di vivida partecipazione, di un dramma vissuto lungo la linea di due orizzonti, sul ponte di quelle navi e nelle case di un’isola, l’isola di Procida, che lega i suoi destini al mare e che ancora non si rassegna alla
normalità dei pericoli che il mare nasconde e disvela. Un diario di bordo, come lo definisce l’autore, cronista incisivo e appassionato cultore della storia isolana, da leggere e rileggere non solo per emozionarsi seguendo le pieghe di un’avventura dei giorni nostri, non solo per scegliere se schierarsi con il partito dei trattativisti o con quello che vorrebbe guardie armate a difesa dei
bastimenti. Ma per capire una volta di più, e rendere l’omaggio che merita, a una piccola terra circondata dal mare che ancora insegna al mondo il coraggio, le capacità di sacrificio e l’abilità professionale dei figli del Sud.