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Racconto.Da Acquamorta a Miseno le rive degli innamorati

Una ripida discesa porta verso la spiaggetta di Acquamorta, nel comune di Monte di Procida, è sera, un vento gelido fa soffrire quanti, come me, se ne vanno in giro alle otto di sera con la malinconia del giorno che scoda, prossimo alla fine. Ci sono auto parcheggiate lungo il porticciolo, probabilmente amanti, fidanzati in cerca di oscurità. Qualche macchina va, qualche altra va via, sono sulla spiaggetta alla ricerca nemmeno io so di cosa. L’unico locale presente è chiuso, la sabbia è sporca, incastrata contro un alto costone di tufo. Non c’è assolutamente niente, solo il freddo rende il luogo palpabile, qui la spiaggia d’inverno muore, senza alcuna condizione, è resa assoluta, è una zona inerte, bisognerebbe avere lo sguardo di Carmilla per la neve per cogliere nella sabbia i segni di altri mondi, altre grida. La pavimentazione della banchina è piatta, le barche, nonostante il vento, restano immobili sull’acqua, il vento copre lo sciabordio, la finestra ampia di un ristorante che affaccia sul porto allarga una luce poco convinta di illuminare anche l’esterno. Un pescatore, coperto da solo un maglione, aria burbera, davanti alla sua auto sta sistemando il pesce nelle vasche, lo fa con lentezza, indifferente al gelo che bussa sul corpo, affondando le mani nel ghiaccio e nei molluschi. Qui l’inverno travolge ogni cosa, al massimo, al mattino, è un posto per un breve sosta, prima di risalire verso il paese. Se non fosse per alcune luminarie celesti che annunciano anche qui il periodo natalizio, sarebbe soltanto l’inverno, probabilmente. Vado via deluso, qui le spiagge in inverno sono vecchi guardaroba costretti a conservare ogni tipo di indecenza. Dalla collinetta di Monte di Procida si scende verso Bacoli, continua a fare freddo, la stanchezza arriva dalle strade, dalle piante, dalla topografia. Arrivato a Miliscola, c’è solo L’Oblio aperto, pochi giovani, con le mani nelle tasche dei jeans, chiacchierano incuranti del gelo. Si fa fatica a vedere la gente con giubbotti, la faccia intirizzita, la immagini sempre con il costume, l’abbronzatura accentuata, la granita in mano e il sudore sul collo. Dell’estate è rimasto solo il suo scheletro, la spiaggia è invisibile, il mare se lo è portato via la notte, con il sale, facendolo evaporare come una nuvola. Busso alla porta a vetri del lido Turistico, mi apre il guardiano, un uomo intorno ai sessant’anni, mi dice che durante l’inverno resta chiuso, a meno che non ci siano giornate bellissime, come in passato è capitato, quando le famiglie invadono la spiaggia, passeggiano, i padri giocano con i figli e le madri li tengono per mano davanti al mare, i giovani prendono il sole e gli anziani camminano con i pantaloni alla zuava sulla riva. L’interno del locale è dimesso, un televisore acceso prova a tenergli compagnia, ha colori accesi, i divanetti bianchi sono leggermente scomposti, hanno un’aria stanca, da fine festa. Il guardiano, con voce dimessa, mi confida che la struttura è del tutto aperta e quindi non ha alcuna possibilità di poter aprire in inverno. Il suo aspetto ricorda una pagina di Cecov. Quando richiude, lo vedo muoversi attraverso il vetro per riprendersi il tempo che abita dentro quel guscio sulla sabbia. Non si vede altro intorno, il lido America è stato ingabbiato dentro lamiere, sembra un’enorme scatola di latta in attesa di essere riaperta con il primo calore primaverile. Qui l’inverno non ammette intrusioni, pretende dominio assoluto, esclude gi uomini dalle spiagge, se non sono pescatori o passeggiatori solitari, Garrone o Sorrentino potrebbero ambientare qualche storia di un uomo in fuga che, come scrive Curzio Malaparte, giunto in vista del mare: non osa nemmeno allungare una mano, temendo che fugga davanti alla sua mano sporca. I ragazzi fuori all’Oblio grugniscono infastiditi dalla mia presenza, hanno i riflessi rallentati dal gelo, ma non entrano né in auto né nel locale, preferiscono essere gli avanzi di una sera d’inverno. Mi sposto verso Miseno, la penombra è ovunque come l’umido dopo la pioggia; c’è solo un bar che resiste, Da Giona, i suoi neon sono l’immagine della rassegnazione alla solitudine dell’inverno che sbiadisce le sere. L’unica parte illuminata della spiaggia è nei pressi della salita che porta al faro, le sdraio sono appoggiate a una specie di monolite, oggetti privi di ogni funzione. Poche auto in sosta e nessun parcheggiatore, nemmeno abusivo. In questi mesi, qui, uno scrittore potrebbe decidere di soggiornare per terminare un suo libro o iniziarne uno, come capitò a Thomas Mann sul lido di Venezia, quando scrisse la figura di Tadzio. D’estate le spiagge smettono di essere spiagge per diventare un componente da montare con ombrelloni, sdraio e solarium, rimpiangendo i giorni  d’inverno.

fonte IL MATTINO,Davide Morganti.

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