Anni fa a Procida ho conosciuto un giovane enotecaro. Poco più che ventenne, aveva aperto il suo negozio vicino al porto, ai piedi della salita che conduce, curvando a sinistra, fino a Terra murata. A quel tempo frequentavo l’isola, soprattutto in primavera, con un gruppo variegato di amici. “Finalmente, un’enoteca!” ci dicemmo, lieti di poter aggiungere un nuovo luogo enoico a quelli consueti: l’enoteca, minima, all’Olmo, la salumeria proprio di fronte all’imbarcadero. Poi c’erano per noi il vino ruspo di Chiara nella campagna dell’Ottimo, e quello sciolto dell’isola, più spesso di Ischia o dei Campi flegrei, che ci procuravamo da Gorgonia, ristorante da me prediletto, alla Corricella. E proprio alla Marina della Corricella, sulla scia del successo, struggente, de Il postino di Troisi, il giovane enotecaro aveva intenzione di intraprendere un’altra attività, “un ristorantino o qualcosa del genere”.
Le cose però non andarono bene. Nonostante le sue, alquanto esibite, capacità imprenditoriali, dopo un solo anno non aveva riaperto il locale. Lo appresi, mentre mi attardavo a stipare bottiglie nello zaino, una sera e partecipavo, lo ammetto, con moderazione, al suo insuccesso. Al momento dei saluti, forse perché parlavo della bellezza dei luoghi, il ragazzo (davvero non riesco a ricordarne il nome) mi confessò che prima di allora non aveva mai messo piede alla Corricella. Un senso amaro mi attraversò allora: Procida non è mica New York! Davanti a me, c’era un vinto e di una specie strana. Come in un romanzo di Verga (semmai uno di quelli che non ha scritto) la fiumana del progresso lo aveva travolto. La sua isola, per me luogo d’incanto, non gli apparteneva. Non gli era mai appartenuta. L’attracco dei pescherecci, le case dei pescatori, le reti, gli odori (pipì di gatto, quella vera, e infinite sfumature di salmastro), la luce, le scale, i colori: mai esistiti. Almeno fino a quando un’ avventura, beninteso commerciale, non lo aveva spinto in quell’angolo remoto (non proprio sconosciuto ai procidani e al mondo), ma con grandi prospettive di sviluppo. Vittima del progresso, e delle mode eno-gastronomiche, la fiumana gli era passata sopra, ma da prima; anzi, per così dire, preventivamente.
Di tutto questo mi ricordo, dopo aver letto di Raffaele Moccia e del suo Vigna delle volpi. Compare la parola vinti. Questa la molla, lo scatto, l’occasione. Non lo conosco, Lello, non l’ho mai visto, se non in foto. Amo i suoi vini. Me li hai presentati, or volge l’anno, tu, che un po’ conosco e ammiro. Ma non ci credo. Non credo (certo, spero) che l’onda possa travolgerlo.
Il vino è il canto della terra verso il cielo, ha detto maestro Veronelli. È così. Sale, da questo lembo di terra assediato dal cemento, un canto. Lo sento nell’ultimo sorso di questa Falanghina dei Campi flegrei 2009: fresca suadente polputa lieve (ma gli aggettivi potrebbero essere facilmente moltiplicati).
La controetichetta recita, e le labbra si atteggiano a un sorriso, che il vino è “prodotto a tiratura limitata”. Basta leggere, dunque.
Maurizio Arenare