Un serpente di canali d’acqua che copre 1000 chilometri quadrati: tra depuratori fantasma, consorzi milionari e malapolitica. La magistratura dichiara il “disastro ambientale” in Campania
Il serpente d’acqua è lungo 56 chilometri. Striscia intorno a 104 comuni, per 1.095 chilometri quadrati e tocca l’intera provincia di Caserta, una parte del napoletano e dell’area di Benevento. Il serpente è talmente velenoso che ha causato un disastro ambientale. Puoi trovarci carcasse di vacche che galleggiano, fendono l’acqua grigia e schiumosa, tamponano altre carcasse, quelle di decine d’automobili arrugginite e coperte, a loro volta, da sacchi di plastica d’ogni dimensione e colore. In quest’inferno, persino i depuratori inquinano. I comuni: riversano le fogne direttamente nell’acqua che affluisce al mare. Siamo nel “canalone” dei Regi Lagni: un reticolo di canali che convogliano acqua piovana verso il mare. Stivaloni ai piedi e mascherina al volto, Elpidio Pota e Pietro Papapicco, hanno setacciato i canali metro per metro. Per quattro lunghi anni. Parliamo di un luogotenente e di un maresciallo della Guardia di Finanza di Caserta. È stato il Nucleo Tributario, guidato dal tenente colonnello Michele Iadarola, a svolgere le indagini condotte dai pm Donato Ceglie e Paolo Albano e dal procuratore aggiunto di Santa Maria Capua Vetere, Raffaella Capasso. Risultato: 16 aprile, ventidue arresti, quattro depuratori e venticinque aziende sequestrate.
Colera e fondi pubblici
La magistratura ha messo nero su bianco il reato di “disastro ambientale”. Seguono, negli atti, svariate accuse per truffa aggravata, gestione illecita dei rifiuti, danneggiamento di acque ed edifici pubblici, distruzione e deturpamento, falsi in atto pubblico. La procura parla di “mosaico criminale”. Un mosaico che per anni, in tanti, hanno visto evolvere: tassello dopo tassello. Senza fiatare. Anzi. C’era chi affermava – su carte intestate della Regione Campania – che la depurazione funzionava. Strano. Perché s’immagina che l’acqua di fogna, immessa in un depuratore, ne debba uscire più pulita. A Orta di Atella accade il contrario: è più pulita quando entra. All’uscita è più inquinata. E pensare che la regione Campania, per questi depuratori, spende circa 250 milioni di euro l’anno. Le procure di Santa Maria Capua Vetere e Nola ne hanno sequestrati quattro su cinque. Per il quinto – quello di Caivano Acerra – la competenza spetta alla Procura di Napoli: gli atti sono stati spediti sin dalla fine del 2009. Eppure – nonostante, come vedremo, versi in condizioni pessime – il depuratore non è stato ancora sequestrato. Ma torniamo al serpente velenoso. Su quest’acqua, che scorre verso la foce di Baia Domizia, ci puoi leggere la storia antica e recente della Campania. Lo vollero i Borbone nel 1600: i Regi Lagni rappresentarono la bonifica, furono un atto di civiltà. Quattro secoli dopo vedi pale meccaniche che si alzano sui bordi del canale. Scaricano tonnellate di feci animali. Tonnellate che scorrono verso la foce. Altri le scaricano – sempre a tonnellate – nelle campagne. Le feci delle vacche sono rifiuti speciali. Inquinano le falde acquifere. Le stesse falde che, poi, restituiscono l’acqua usata per abbeverare le vacche, irrigare i campi, e realizzare il fiore all’occhiello della zona: la mozzarella di bufala.
A riversare nel canale (e nella terra) valanghe di feci sono stati gli stessi allevatori. Una follia. Gli stessi allevatori che hanno usato il canale come cimitero galleggiante delle loro vacche. Del colera che devasto l’area nel 1973, qui, forse non si ricorda più nessuno. Dei finanziamenti pubblici, forse, sì. Arrivano nel 1987: lo Stato decide che i Regi Lagni vanno risistemati. Costarono ben 520 miliardi di lire. Furono completati, in ritardo, nel 1997. Ma soprattutto: furono un grande affare per il clan dei Casalesi. Una delle principali forme d’accumulazione di quel capitale, ormai sterminato, che oggi consente loro di infiltrarsi ovunque nell’economia legale. Con i Regi Lagni misero a regime il loro “sistema”: non imposero soltanto le estorsioni. Riuscirono a far lavorare le loro stesse imprese. I miliardi incassati con i Regi Lagni continuano, ancora oggi, ad avvelenare l’economia pulita. Eppure questa volta Gomorra c’entra poco. Anzi. Intorno a questi canali, i soldi, per centinaia di milioni di euro, girano ancora. Ma la responsabilità ora ricade sui “colletti bianchi”: i burocrati che avrebbero dovuto controllare. E che invece – secondo le accuse – hanno dato il proprio contributo a questo disastro.
Impianti inutilizzati
Un esempio. La popolazione servita dal depuratore di Acerra – in termini tecnici si parla di popolazione equivalente – è pari a 250 mila persone. In molti comuni della zona – sono decine – gli abitanti pagano una tassa perché sono convinti che la rete fognaria sia collegata al depuratore. E invece leggiamo cosa scrive l’Enea: “I reflui, seppure giungano a pochi passi dal cancello del depuratore, non entrano nell’impianto di trattamento. Si versano nel canale principale dei Regi Lagni, poche centinaia di metri più a valle dell’area del depuratore, senza subire alcun trattamento. La stazione pertanto è a tutt’oggi pressoché inutilizzata. L’impianto di fornitura per autoproduzione di energia elettrica, mediante recupero del biogas, è fuori servizio da tempo. Il nuovo impianto d’essiccamento dei fanghi non è mai entrato in funzione”. E quindi: “L’impianto di Acerra non riesce a offrire garanzie sui valori d’abbattimento degli inquinanti previsti dalla normativa vigente”. Passiamo al depuratore di Villa Literno: l’Arpac, il 15 aprile, ha verificato che le acque, cariche di fanghi tossici, aggirano l’impianto e finiscono dritte nei Regi Lagni.
E i controlli? Ovviamente aggirati anche quelli. La Hydrogest gestiva i depuratori di Orta di Atella e Villa Li-terno. Un consorzio gestiva invece il depuratore dell’area no-lana. L’amministratore e il presidente del cda di Hydrogest, Gaetano De Bari e Domenico Giustino, ora sono indagati per aver “sversato illegalmente reflui urbani e industriali, inquinanti e maleodoranti, contenenti valori chimici e batteriologici di gran lunga superiori ai limiti massimi imposti dalla legge, cagionando un danno gravissimo anche alle acque del mare di larga parte del litorale Domitio”. Hanno inquinato: ma non dovevano gestire la depurazione? “Trascorsi 31 mesi dall’affidamento in concessione degli impianti – scrive sempre l’accusa – non sono neppure iniziati gli interventi di ri-funzionalizzazione e adeguamento delle strutture […] previste dal crono-programma”. La Regione, però, i soldi li sborsava ugualmente. Scrive l’accusa: “Sugli otto megadepuratori gestiti dalla Regione Campania (cinque dei quali scaricano nei Regi Lagni), l’Amministrazione pubblica sopporta un costo annuo di circa 100 milioni di euro: 76 per canoni di gestione, 14 per la manutenzione straordinaria, 10 per l’energia elettrica”. Poi si sottolinea: “Il servizio di depurazione è considerato alla pari della fornitura di energia elettrica o del gas. Il cittadino deve pagare solo se il servizio è fornito”.
I buchi della rete
Bene. Il comune di Santa Maria Vico, nel 2009, scopre che l’impianto fognario non è collegato al depuratore: tutto affluisce direttamente nel “controfosso” dei Regi Lagni. Eppure gli abitanti pagavano il servizio. Idem per Casal di Principe, San Cipriano, Casapesenna e per decine di altri paesi: centinaia di migliaia di persone. Negli atti si parla di “avvelenamento” delle acque dovuto “alla criminale inefficienza del sistema di depurazione pubblico”. E infatti: la pubblica amministrazione, anche nell’era Bassolino, non ha battuto ciglio. Dal 1999 esiste un “organo di controllo pubblico dei depuratori”. Conta ben 25 persone: 6 dirigenti, 3 collaboratori tecnici, 9 esperti (professionisti esterni), 7 segretari degli esperti. La procura stima costi, oltre gli stipendi, per “4 milioni di euro” in otto anni.
La Guardia di Finanza aggiunge: “Mentre per i cittadini, le acque di scarico dei depuratori, è fonte di malattie, per questi fortunati dipendenti pubblici, la stessa acqua, è come l’oro”. E infatti molti, tra gli indagati, sono membri della Commissione di controllo. Se ne contano 15 e, tra loro, anche un professore universitario: Manlio Ingrosso. Ecco come si giunge al disastro ambientale: “Bastava redigere una relazione tecnica mensile, pressoché a ciclostile, nella quale nulla si dice circa il disastroso stato del depuratore. Si avalla acriticamente ogni attività del gestore e si porta all’approvazione della Commissione di esperti”. E gli esperti approvano. “Di approvazioni, da parte della Commissione di controllo, ce ne sono a centinaia”.
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