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Famiglia montese eredita l’Isola di Vivara e due terreni edificabili di Monte di Procida.

isoladivivara1[1]Dopo 16 anni e circa 60 mila euro di spese legali, il Tribunale di Napoli restituisce ai legittimi eredi l’isola di Vivara e due terreni siti a Monte di Procida.
dall’articolo della giornalista  V. Lanza dal quotidiano “il Mattino” del 22.05.2015.

L’isola di Vivara torna nella proprietà degli eredi di Domenico Scotto Lachianca, il medico procidano che nel luglio del 1940 la lasciò in eredità all’ospedale civico Albano Francescano.

Lo ha stabilito una sentenza del Tribunale civile di Napoli, dopo una battaglia legale durata sedici anni e sei processi in totale, fra primo grado, appelli e ricorsi in Cassazione da Il Mattino

Un cambio di guardia storico. Avvenuto dopo sedici anni di battaglie legali e ricorsi. Vivara, l’isolotto a poche bracciate da Procida (a cui è collegato da un ponte tubi per il trasporto dell’acqua, recentemente adattato alla pedonalizzazione) ha un nuovo proprietario, come annunciato dal “Tg Procida”. Sì, perché, oltre ad essere una riserva naturale statale dal 2002, presieduta dall’imprenditore Maurizio Marinella, l’area è da sempre proprietà privata. Nel 1940 è stata ereditata dall’ente morale Albano Francescano (oggi presieduto su nomina della Regione da Emilia Carannante) che, nel 2012, ha tra l’altro finanziato i lavori di messa in sicurezza degli sparuti immobili sull’isolotto, quasi tutti risalenti all’epoca borbonica. Il proprietario precedente di Vivara era Domenico Scotto Lachianca, medico locale e armatore che trasformò il posto in una stretta e lunga distesa di vitigni e frutteti.
Ed è proprio ai suoi discendenti, impugnatari del testamento nel 1999 che, secondo una sentenza della Corte d’Appello di Napoli, spetterebbe l’eredità dell’isola, un luogo magico e incontaminato, tutt’oggi precluso a visite di turisti e dei procidani stessi, nonostante compaia nell’elenco delle 146 riserve naturali di Stato. L’impasse nasce proprio dai lunghi e complessi cavilli burocratici che tutelano, ma spesso strozzano, ogni proposta o attività di un piano di gestione dell’isolotto da parte degli enti gestori. Che sono ben cinque, diretti o indiretti, per una striscia di terra lunga meno di mezzo chilometro quadro. Dall’ente proprietario Albano Francescano, alla Regione (proprietaria del ponte di tubi, lungo poco più di cento metri), al Comune di Procida (sotto la cui giurisdizione rientra, naturalmente, anche Vivara) e alla Soprintendenza ai Beni architettonici, che tutela le piccole costruzioni. Per non parlare del ministero all’Ambiente, che gestisce l’oasi naturale, d’intesa coi proprietari. Ci troviamo di fronte, quindi ad un caso più unico che raro di riserva statale in una proprietà provata, mai espropriata.
Le lunghe trattative per un piano di gestione di Vivara dal punto di vista turistico si perdono negli anni, in lungaggini e tira e molla. “Se davvero la sentenza del Tribunale avrà effetto, potranno cambiare molte cose – dice Roberto Gabriele, presidente dell’associazione Vivara, nata nel 1997 per la tutela e promozione del luogo – Un conto è infatti dover dialogare ogni volta con un intero Consiglio di amministrazione, come avveniva con l’Albano Francescano. Un altro è poter parlare con un solo privato, nuovo proprietario del luogo”. La storia, però. non è del tutto nuova. Gli eredi, infatti, hanno vinto in primo grado e appello, ma la Cassazione ha annullato la sentenza nel 2008, rimandandola alla Corte d’appello. Che gli ha nuovamente dato ragione.
“Le motivazioni di questa causa – spiega Mariano Cascone, avvocato e presidente della Fondazione Albano Francescano dal 2008 al 2013 – sono dovute al fatto che, secondo la tesi degli eredi, le clausole della donazione originale del 1940 non sono mai state del tutto adempiute”.
Il testamento sanciva infatti che oltre ai nove membri originari del Consiglio di amministrazione del bene, in maggioranza religiosi, ne fossero nominati altri sei, laici, dal sindaco di Procida. “Cosa mai avvenuta – prosegue Cascone – Io stesso convocai una riunione nel 2012 del cda per ottemperare a questa volontà testamentaria. Ma si concluse con un solo voto a favore, il mio, seguito addirittura da relativa richiesta di mie dimissioni, solo perché avevo osato proporre la questione”.
Di diversa opinione Vincenzo Capezzuto, sindaco di Procida: “Pur non avendo diretta legittimità in una causa del genere, riteniamo opportuno – dichiara – intervenire contestando la richiesta degli eredi. L’ente Albano Francescano avrebbe dovuto e secondo noi ancora può, resistere in maniera più forte,

eccependo almeno l’intervenuta usucapione del bene”. Ora come ora, Vivara torna dunque ai Lachianca. Che, ovviamente, visti tutti i vincoli che garantiscono la salvaguardia dell’isola, non potranno disporre del terreno a loro piacimento. Un futuro tutto nuovo può quindi attendere quel quarto di luna di rocce, erica e mirto, nel mare tra Procida e Ischia. Sperando che, prima o poi, la riserva naturale dello Stato italiano venga aperta anche agli altri italianio

da www.repubblica.it

 

La battaglia di Vivara gli eredi dell’isolotto pronti per la gestione di ANTIMO SCOTTO  Monte di Procida (2006)

«Non ne sapevamo nulla e quindi, prima di dire qualsiasi cosa, vogliamo avere le idee chiare. Non posso rispondere ad alcuna domanda perché al momento non sono in grado di sapere come stiano realmente le cose». A parlare è Francesca Diana, una dei beneficiari della storica sentenza, disorientata dal clamore improvviso. Un clamore che ha colto di sorpresa i protagonisti involontari di questa vertenza. Già, involontari. Colui che invece avrebbe accolto con soddisfazione l’esito della vicenda giudiziaria, l’avvocato Giuseppe Diana, papà di Francesca e Antonio, è purtroppo scomparso l’anno scorso senza riuscire a vedersi riconosciute le ragioni su Vivara. Anzi, su Bìvaro. L’avvocato Diana, sosteneva infatti che così andrebbe correttamente chiamato, come si evince da numerosi atti ufficiali risalenti al 1700-1800. Ci aveva scritto persino un saggio, pubblicato sei anni fa col patrocinio del Comune di Procida («Bìvaro, l’isola dei castori»), nel quale aveva appunto sostenuto che le origini del nome non fossero quelle latine: non «vivarium», un vivaio floro-faunistico, bensì la distorsione napoletana della parola «bìvaro», etimo di origine celtica che significa castoro e che trova la sua giustificazione nella massiccia presenza sull’isoletta di una sottospecie del roditore, il cosiddetto «nutria», dal tronco di castoro e con la coda di topo. In quel testo Diana aveva raccolto atti, documenti e testimonianze su Vivara, su quel feudo dalle magiche caratteristiche naturali. Fra le prestigiose presenze, menziona quella di Eduardo Scarfoglio che prese in affitto l’isola nel 1910. L’anno dopo VIVARA finì all’asta, aggiudicata ai fratelli Biagio e Domenico Scotto Lachianca, medici procidani molto affermati: il primo aveva tra l’altro commercializzato il catetere in America Latina nella seconda metà dell’Ottocento; il secondo era stato consigliere comunale a Napoli, ma era stato anche armatore e, rimasto unico proprietario di Vivara, aveva puntato sulle sue risorse agricole, producendo eccellenti vini, olio e frutta varia. Privo di discendenti diretti Domenico Scotto Lachianca nominò erede universale l’Ospedale Albano Francescano e alla sua morte, il 10 luglio 1940, VIVARA passò, insieme con una cinquantina di vani, terreni a Procida e Monte di Procida e due milioni e mezzo di lire in contanti, all’istituto che prestava conforto ai poveri e bisognosi. Secondo l’avvocato Diana, discendente attraverso una linea di parentela collaterale dei Lachianca (una zia dei fratelli Biagio e Domenico, Margherita, coniugata con Loreto Schiano Lomoriello), il lascito era stato nel tempo invalidato dalle mutate attività dell’ente. Diana era noto e stimato professionista, appassionato cultore della storia dei Campi Flegrei ed autore di numerosi saggi di ricerca nei quali non mancava di proporre anche idee per la valorizzazione delle risorse. L’ultimo suo scritto lo ha visto impegnato sulla storia di Monte di Procida; un testo che aveva dedicato a don Antonio Diana, a lungo parroco della chiesa di Sant’Antonio, nella frazione Casevecchie.

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