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IN MEMORIA DI PAPA WOJTYLA

In morte di Giovanni Paolo II
Il “mio” Carol Wojtyla: memorie di “lessico famigliare”
Un saluto ed un ricordo sommesso del Pontefice appena scomparso…Ma io me lo ricordo. Il Papa, dico. Non questo degli ultimi anni, perché è ovvio che sia così. Ho dei ricordi che oggi fanno capolino nella mia mente, oggi che ne scrivo in morte, unendomi al novero di coloro che fanno informazione, ed è strano che il decesso di un Papa porti ad un tale “comunismo” di comunicazione. Tutti ne parlano, lo ricordano, rievocano i momenti salienti del pontificato di Carol Wojtyla.
Ma i miei ricordi sono legati a quello che Natalia Ginzburg definirebbe “lessico famigliare”.
Sono ricordi di una storia vissuta mediatamente, tramite la fede dei miei nonni, e le idee di tanti altri, compresi gli amici con i quali, nell’età della ribellione, si discuteva e si litigava di filosofia e di politica, di falce, martello, fasci, e religione.
Sono nata sotto Paolo VI, avevo appena iniziato ad andare a scuola quando morì. E mi ricordo anche del conclave, quella parola strana di cui mi incuriosiva la “fumata” che faceva sapere a tutti se era stato eletto il nuovo Pontefice. Quando alla televisione inquadravano quel comignolo, per me uno come tanti, tutti si tratteneva il fiato: “Se è bianca –mi avevano spiegato- vuol dire che è stato eletto il nuovo Papa. Se la fumata è nera, vuol dire che non lo hanno ancora nominato”. E la solennità del momento ai miei occhi di bambina, si dissolveva in un’unica, ingenua domanda: “Ma come fanno a far diventare la fumata nera o bianca?”.
Nella scuola cattolica che frequentavo, le suore si affannavano a spiegarci che l’elezione del Papa era dettata dallo Spirito Santo che illuminava i cardinali. Avevo cinque o sei anni e mi avevano detto che ero cattolica, non è che avessi (ancora) deciso io, nell’un senso o nell’altro.
In casa mia si agitava, talvolta, il pugno sinistro alzato. Un gesto di cui mio padre non mi ha mai voluto spiegare il senso, lui che ha sempre risposto a tutte le mie domande, soddisfatto ogni mia curiosità. Anche mia madre insisteva, “e diglielo, no?”, ma lui niente: a questo mio perché, non rispondeva. Non ne capivo il motivo.
A distanza di anni lo avrei saputo, quando, tanto tempo dopo, mio padre entrò silenziosamente nella mia stanza, consegnandomi un libro: “Babeuf ed altri”.
“Qui ci sono i tuoi perché –mi disse solo- volevo farti crescere libera di formarti una tua opinione, in questo e in tutte le altre scelte della tua vita”.
Non sapevo che tra quel pugno e quella croce, era in corso una battaglia di giganti, che quei due simboli erano una gran parte della storia del secolo che ormai è passato e chissà, forse anche di quello che è appena iniziato, fatte le dovute proporzioni e aggiustamenti alla realtà odierna.
Ma mi ricordo della storia che è passata sulla mia testa di bambina e di ragazzina, anche se solo molto dopo avrei “misurato” e commisurato questi ricordi con il metro della storia.
E mi ricordo il giorno in cui fu eletto Papa Giovanni Paolo I, la “fumata” bianca, i rosari che scorrevano tra le dita delle nonne, i “rendiamo grazie a Dio”.
E poi mi ricordo una mattina: mi stavo vestendo per andare a scuola, mio padre telefonò dal lavoro e disse, con la sua solita ironia, pacata, tagliente, ma piena di rispetto: “E’ rimorto il Papa”. Non voleva essere una battuta sarcastica: erano trascorsi solo 33 giorni da quando il comignolo che tanto mi incuriosiva, aveva decretato l’elezione di Albino Luciani. E di nuovo lo scorrere di rosari e preghiere, di nuovo l’attenzione puntata sul “comignolo”.
La nuova fumata bianca, “Habemus papam… dominum…dominum…”: “Ma che c’è non si ricorda il nome?”. Era quello di Carol Wojtyla che, in un incerto italiano, salutò la folla scherzando sulla sua scarsa dimestichezza con la lingua: “Se sbaglio mi corigerete”.
Adesso mi accorgo che quelle immagini, che avevo riposte in un angolo della memoria, ci sono tutte, stranamente vivide a distanza di quasi 27 anni. Così come vivida è la memoria dell’attentato, quando all’improvviso, la televisione, che allora era ancora una strana compagna, che sempre più invadeva le vite di ognuno, trasmise le immagini di Giovanni Paolo II che si accascia dopo lo sparo, la jeep che accelera, le guardie del corpo che corrono ai lati dell’automobile facendosi strada verso l’uscita di piazza San Pietro, la corsa verso l’ospedale. “Attentato al Papa”, dissero i cronisti, “Il Pontefice sparato in un attentato” e via, con il ripetersi quasi ossessivo di quelle immagini, le congetture, e poi il nome dell’attentatore: Alì Agca.
“Hanno sparato al Papa”, dissi e quasi mi sentii orgogliosa di aver “dato una notizia”, perché ancora nessuno l’aveva sentita, ma fu come aver dato un gran colpo ad un alveare con un bastone.
Il putiferio che si scatenò tra i “grandi”, lasciò noi bambini allibiti, increduli mentre guardavamo e sentivamo le reazioni degli adulti, quasi come fosse successo qualcosa ad un parente, forse di più.
Mi fermo qui, con i ricordi, per non tediare nessuno. Non so perché oggi ho scritto questo amarcord del tutto personale, un po’ strano, leggermente sbilenco e certamente tutt’altro che “ufficiale”. Certo non per presenzialismo massmediale. Forse perché, in fondo, quello che rimane di un uomo comune, come di un Pontefice, è il ricordo, e questo è legato alle cose della vita quotidiana, piccole cose aggrovigliate a quelle grandi.
Forse perché, oggi, parte del mio “lessico famigliare” è tornato a galla smosso dalla notizia di portata mondiale della morte del Papa, che mi ha ricondotto ad addentellati intimi, memorie legate all’infanzia e non solo, calata in una storia che non sapevo di vivere, che ha, comunque, deciso parte della direzione della mia vita.
Perché quando se ne va un pezzo di storia, comunque la si voglia giudicare, merita un ricordo ed un saluto.
Quale che ne sia la ragione, Giovanni Paolo II è un pezzo della “mia” storia: un ricordo ed un saluto.
Fabiana Scotto di Perta

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